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 2016  settembre 29 Giovedì calendario

In morte di Simone Carella

Franco Cordelli per il Corriere della Sera
Se la si guarda all’indietro, prima che la storia di quell’uomo che Simone Carella sempre è stato cominciasse, non vi sono che artisti di arte visiva, il cuore dell’avanguardia romana degli anni Sessanta, da Mario Merz a Pino Pascali, soprattutto a Gino De Dominicis, che fu suo grande amico. C’è poi l’Attico, la galleria di Fabio Sargentini, che frequentava assiduamente e in cui lavorò come factotum: mai come artista (ripeteva sempre), in nessun modo.
All’Attico vide tutte le mostre: fino a quella dei cavalli di Jannis Kounellis. Ma accanto agli artisti ci sono i musicisti, suoi maestri e, quasi, compagni di strada, da Charlemagne Palestine a La Monte Young a Terry Riley: Simone parlava sempre della sua composizione più famosa, In C, fu il fulcro della sua immaginazione. Essa si manifestò prima dei suoi trent’anni.
Scomparso ieri, era nato a Bari il 27 novembre 1946, il padre era venuto a Roma per lavorare, lo considerammo subito uno dei grandi teatranti pugliesi: Carmelo Bene, Leo de Berardinis, Eugenio Barba. Incontrò Ulisse Benedetti, grande organizzatore e spericolato impresario sprovvisto di quattrini, e al Beat 72 fondò il più importante teatro di avanguardia che abbia avuto non già Roma (si parlava sempre di avanguardia romana) ma il nostro Paese.
Al Beat le esperienze artistiche e quelle musicali s’inverarono in quella teatrale, il teatro come disciplina tanto severa (nel togliere, nell’impoverirsi) quanto molteplice (nel mescolare le arti e le arti e la vita). Vorrei ora dire: chi non ha visto gli spettacoli di Carella è come chi non ha visto Petrolini, o Eleonora Duse: non ha avuto fortuna. Costui crede che l’avanguardia sia quella che tale oggi si definisce, ma che tutto deve a Simone Carella e ai suoi compagni di strada: a Giuliano Vasilicò, a Giorgio Marini, a Memè Perlini, a Giancarlo Nanni, a Bruno Mazzali.
Ma penso, è naturale, ai suoi spettacoli. Essi, quelli fulminanti, che stanno nella storia del teatro, sono pochi. Ma sono irripetibili – nella negazione di sé e dello stesso teatro, matrice di ciò che è venuto dopo. Ne voglio ricordare due. Autodiffamazione tratto da Peter Handke. In scena non c’era che una sedia, nessun attore, nessun monologhista. Del testo, se non ricordo male, si sentiva una voce in lontananza, una voce registrata. Ma soprattutto se ne sentiva l’accompagnamento, era il Köln Concert di Keith Jarrett: un’ora di una concentrazione ineguagliata. L’altro è La morte di Danton. Ora Mario Martone, che con Giorgio Barberio Corsetti nacque al Beat 72, lo ha messo in scena in modo tradizionale. Carella non mostrò che bandiere nel buio (bandiere rosse) e, nel suo stile, il testo di Büchner con voci registrate. Voglio infine ricordare l’opera sua che tutti conoscono e che lo ha reso famoso: il festival dei poeti di Castelporziano. Cambiò il teatro (fu l’epilogo di un cambiamento), cambiò la poesia, cambiò il rapporto con il pubblico. Nulla di simile si ripeté mai. Oggi, i festival hanno polverizzato, di quel festival della pura intensità, il ricordo ma non la memoria profonda.

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Rodolfo Di Giammarco per la Repubblica
Io lo conoscevo bene, da tanti e tanti anni, Simone Carella, scomparso ieri a quasi settant’anni, e di lui depositario (ispiratore, organizzatore, collocatore) di numerose e formidabili avventure del teatro d’avanguardia romano (e nazionale) degli anni Settanta e passa, di lui uomo sereno e cultore delle compagnie giovani della scena, di lui mi resta affettuosamente in memoria il volto più gioviale, la figura più dolce, la tempra più paziente, la sagoma di utopista più instancabile, il carattere dello scopritore di talenti più calmo ed entusiasta che mai abbia prodotto l’area concettuale, performativa e neo-linguistica (e filosofale, e però anche anti-modaiola e umana) di tutta l’ampia zona della nuova creatività teatrale di fine Novecento, meglio nota come la Scuola Romana.
Io lo conoscevo bene, Simone Carella, persona mite, scopritore del genio artistico delle nuove generazioni, uomo che da solo anticipò il birdwatching osservando e sentendo con fare appartato gli sciami inediti degli attori, dei costruttori di spettacoli, condividendo con Ulisse Benedetti dal 1973 al 1986 la stagione folgorante del Beat 72, la cantina più sperimentale, simbolica e acculturata negli arcipelaghi delle avanguardie italiane. Io lo conoscevo bene, magari scendendo negli antri del Beat 72 per trovarmi testa a testa con un Victor Cavallo (poeta infinito del malessere, fornito di euforica radicalità), e ricordo l’atteggiamento da fratello maggiore che Carella assumeva altrove, in stagione, alle prese con la Gaia Scienza, con Memè Perlini, con Giuliano Vasilicò, con Giorgio Marini, e chissà con quanti che non sto citando. E rammento l’abnegazione che spese nelle tre serate del 1979, in trasferta per un appuntamento epocale e internazionale, dando sostegno (con Franco Cordelli) a un meeting di un centinaio di poeti di ogni lingua e origine, da Evtushenko a Ginsberg, a Burroughs, a Ferlinghetti.
Io l’ho continuato a conoscere bene, Simone Carella, quando prendeva cura del portale di drammaturgia E-Theatre (ora inglobato in E-Performance.tv) appoggiandosi al Teatro Nuovo Colosseo, girando lui stesso in scooter, accumulando materiali, avvicinando le nuove leve, desideroso di espandere a livello di ogni percezione il teatro dell’ultima ora. E da quando spingeva e posizionava i gruppi dell’avanguardia, a quando registrava e classificava i fenomeni del nuovo teatro, Carella mostrava un’onestà, una gioia flemmatica, un piacere dell’incontro come è raro riscontrare negli addetti ai lavori della scena-che-è-e-che-sarà. Per questo, ora, l’assenza di un uomo anonimo e ridente come lui ci procura una commozione vera.