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 2016  settembre 29 Giovedì calendario

Sugli 80 anni di Silvio Berlusconi

Pierluigi Battista per il Corriere della Sera
Silvio Berlusconi, che oggi compie 80 anni, ha colonizzato l’immaginazione degli italiani come nessun altro leader politico. I suoi modi di dire, le sue frasi, il suo modo di abbigliarsi, i suoi travestimenti, persino le sue vicissitudini personali e giudiziarie sono diventate parte della commedia italiana, e non solo delle cronache politiche. Berlusconi è stato al centro delle ossessioni di un Paese che lo ha amato e lo ha odiato, facendo di ogni dettaglio dell’antropologia berlusconiana un tassello indispensabile dell’immaginario collettivo. Ecco l’inventario, agrodolce e ambivalente, delle immagini e delle parole che nei suoi primi ottant’anni Berlusconi ha lasciato e lascerà nei ricordi degli italiani.

La bandana di Berlusconi, il Borsalino di Berlusconi, il cappellino con visiera di Berlusconi, il cappello da capotreno di Berlusconi, la tuta da riposo in cashmere di Berlusconi, il tacco di Berlusconi, il doppiopetto di Berlusconi, la cravatta a pois di Berlusconi, la spilla luccicante di Berlusconi, il costume da danzatore berbero a Marrakech quando per fare pace regala un gioiello a Veronica indossato da Berlusconi, «lo stalliere» di Berlusconi, il conflitto di interessi di Berlusconi, un milione di posti di lavoro di Berlusconi.

Le crociere di Berlusconi, l’orchestrina con Confalonieri sulle crociere del giovane Berlusconi, le vacanze su uno yacht con Stefania Ariosto da dimenticare di Berlusconi, le barzellette di Berlusconi, le corna di Berlusconi, i cucù alla Merkel di Berlusconi, il cribbio di Berlusconi, gli scongiuri ostentati con gestualità eloquente di Berlusconi, lo sguardo rivolto alla crocerossina piacente durante una parata per il 2 giugno di Berlusconi, il kapo di Berlusconi, l’«abbronzato» a Obama di Berlusconi, il «mio amico Erdogan» di Berlusconi, il lettone di Putin di Berlusconi.

Quello del «mi consenta». Quello del «si contenga». Quello del confino fascista come «villeggiatura». Quello del «sono pronto a incontrare il papà Cervi». Quello del «nuovo miracolo italiano». Quello del «più bella che intelligente» a Rosy Bindi. Quello del «meno male che Silvio c’è». Quello del «chi vorrei essere se non fossi Berlusconi? Il figlio di Berlusconi». Quello della «discesa in campo». Quello della raffica di doppi sensi con un’impiegata sul palco durante un incontro pubblico. Quello che in stile Totò finge di spolverare la sedia dove era seduto Marco Travaglio. Quello del «I consider the american flag not only ( pronuncia nos only ) a flag of a country, but an universal message of freedom and democracy» detto a Camp David con il presidente Bush.

I «cumunisti» di Berlusconi, i «giudici cumunisti» di Berlusconi, il «Libro nero del comunismo» di Berlusconi, la «Corte costituzionale in mano alla sinistra» di Berlusconi, il «rassemblement» di Berlusconi, la «maggioranza moderata» di Berlusconi, l’«Unto del Signore» di Berlusconi, il «teatrino della politica» di Berlusconi, «è colpa di Casini» di Berlusconi, «è colpa di Follini» di Berlusconi, «è colpa di Fini» di Berlusconi, il poliziotto di quartiere di Berlusconi, meno tasse per tutti di Berlusconi.

L’elicottero di Milanello di Berlusconi, «Il Milan è un affare di cuore, costoso, ma anche le belle donne costano» detto da Berlusconi, il Presidente operaio di Berlusconi, il fazzoletto da partigiano al collo di Berlusconi, il predellino di Berlusconi, la statuetta del Duomo sulla faccia insanguinata di Berlusconi, gli interminabili scaffali di libri dedicati a Berlusconi, B. di Berlusconi, «l’esponente principale dello schieramento a me avverso» senza il nome di Berlusconi. L’uveite di Berlusconi. Il mancamento in pubblico di Berlusconi che impugna il microfono quando sviene durante un comizio a Montecatini. Il microfono che nella ressa colpisce i denti di Berlusconi. La calvizie di Berlusconi. I capelli di Berlusconi. Il colore dei capelli di Berlusconi. Il fard di Berlusconi. La calza di Berlusconi. I servizi sociali affibbiati da una sentenza a Berlusconi. Quello del lato destro della faccia, il preferito, da esibire in tv.

Quello che odia barbe e baffi e pelurie. Quello della campagna elettorale sull’aereo privato. Quello della barzelletta sull’Aids. Quello dei «dieci comandamenti liberali». Quello della firma sulla scrivania di Bruno Vespa. Quello delle promesse sulle lavagne prima dell’avvento delle slide. Quello di Romolo e Remolo. Quello che chiama Google «Gogol». Quello che «quando qualcuno ha delle punte mi faccio concavo, quando c’è qualcuno che si ritrae mi faccio convesso». Quello della «rivoluzione liberale». Quello dell’invito a Putin a tenere la prima lezione alla sua Università liberale.

Il «Caimano» di Berlusconi, il «Berluskaiser» di Berlusconi, il «Cavaliere Nero» di Berlusconi, il «Cav» di Berlusconi, il Drago e le vergini di Berlusconi, le minorenni di Berlusconi, il ragionier Spinelli di Berlusconi, l’Apicella di Berlusconi, il vulcano artificiale della villa sarda di Berlusconi, il mausoleo di famiglia di Berlusconi, le traversie contrattuali della casa di Berlusconi a Lampedusa, i Bunga Bunga di Berlusconi, le cene eleganti di Berlusconi, il Drive In di Berlusconi, l’Italia è il Paese che amo di Berlusconi, il battibecco con Della Valle di Berlusconi. Gli avvocati di Berlusconi.
Auguri, presidente Berlusconi.

***

Eugenio Scalfari per la Repubblica
Oggi, 29 settembre, Silvio Berlusconi compie 80 anni. Dovrei fargli gli auguri e infatti glieli faccio anche se non ci parliamo più dal 1994, quando lui diventò presidente del Consiglio, cioè da 22 anni.
Sull’ultimo numero dell’Espresso Ezio Mauro ha raccontato la battaglia politica che si è svolta tra la Repubblica ed il suo partito, cioè con lui, perché il suo partito di fatto non è mai esistito. Ha elencato le dieci domande che a suo tempo gli fece Giuseppe D’Avanzo dalle nostre pagine e ne ha aggiunta una, l’ultima: “Cavaliere, ne valeva la pena?”.
Per quanto mi riguarda ho deciso di raccontare i miei rapporti personali con lui. Furono interessanti ed anche divertenti. Cominciarono nel 1979. Repubblica esisteva già da tre anni e le sue vendite avevano quasi raggiunto quelle del Corriere della Sera. L’anno dopo le superarono. La Mondadori, allora di proprietà della famiglia di Arnoldo, condivideva con il nostro gruppo dell’“Espresso” le azioni del nuovo giornale con un rapporto del 50 per cento e in più noi avevamo la partecipazione dell’11 per cento nella società di Rete 4, la televisione mondadoriana.
Questi preliminari sono forse un po’ noiosi ma indispensabili per dare inizio al racconto con Silvio: lui e il suo amico quasi d’infanzia Fedele Confalonieri da un lato, Carlo Caracciolo ed io dall’altro.
Rete 4 andava male e la Mondadori aveva deciso di venderla al solo acquirente possibile che era appunto Berlusconi. Carlo Caracciolo ed io fummo incaricati di trattare la vendita. Berlusconi ne fu informato e ci invitò a cena ad Arcore e fu quello l’inizio non dico di un’amicizia ma di una conoscenza che col passare dei giorni e dei mesi diventò molto cordiale. Del resto il carattere di Silvio era fatto così: voleva piacere, voleva sedurre, voleva comandare ed essere ammirato; in compenso offriva amicizia e se necessario anche denaro e potere.
Arcore l’aveva comprata dalla famiglia Casati. Il corpo centrale era tipico d’una famiglia nobile come i Casati: ampio ingresso, salotti e sala da pranzo con antica mobilia, caminetti, quadri antichi alle pareti, e lì fummo ricevuti e cenammo. Ma poi la villa continuava con una casa nuova costruita da Berlusconi e grande il doppio di quella antica. Era ovale e percorribile in un ampio corridoio che da un lato dava sull’esterno e dall’altro su una fila di stanze adibite agli usi più vari. La visita cominciò.
La prima stanza era una palestra molto grande e piena di attrezzi, le pertiche, le funi, le parallele, cavalli da ginnastica, le reti verticali, il ring della boxe. Insomma tutto. Mancavano soltanto il tennis e la piscina, che erano stati costruiti a poca distanza dalla villa circondata da prati con alberi di faggio. Lui era un cicerone che illustra. «Voi praticate qualche sport?» ci chiese. Caracciolo non ne praticava alcuno. Io dissi il nuoto l’estate e il calcio con i redattori del giornale e con i redattori di “Panorama” e delle riviste Mondadori.
«Lo sport – disse lui – è una perdita di tempo, ti stanca e non serve a niente, ma se sei proprietario di palestre pubbliche, campi sportivi, squadre che emergono nel calcio o nel rugby, allora servono molto, ti danno notorietà ed anche profitto. Da questo punto di vista è un’attività importante». Gli domandammo se lui avesse qualche cosa del genere e rispose: «Ancora no, ma ci sto pensando. L’Inter ed il Milan sarebbero l’ideale».
Le stanze seguenti erano tutt’altra cosa: le pareti erano tappezzate di televisioni di tutta Europa: spagnole, francesi, tedesche, inglesi, olandesi e naturalmente italiane. Al centro della parete con una grandezza doppia delle altre c’era la sua, mi pare si chiamasse Telemilano che poi diventò Canale 5. Il nostro cicerone illustrò l’argomento per almeno un quarto d’ora.
Seguirono molte altre stanze e stanzoni e a un certo punto all’esterno vedemmo un ampio giardino con una serie di tombe di marmo distribuite tra alberi e siepi fiorite. «È il mio cimitero di famiglia» la voce era diventata più bassa e malinconica, lui è molto bravo a cambiare voce secondo le circostanze in cui si trova. «Qui sarò sepolto io e la mia famiglia. Ed anche qualche amico se lo vorrà. Fedele ancora non ha deciso, ma io spero mi dica di sì, siamo amici fin da bambini, lui è un uomo d’affari quanto me ma anche un grande musicista del Conservatorio. Hai deciso Fedele? Tu e tua moglie».
«Ancora non ho deciso, ma lasciami il tempo, spero non sia un fatto imminente». «Hai ragione ma alla fine starai qui con me, io lo so» poi si voltò verso Caracciolo: «Carlo, se vuoi una di queste tombe io sarò molto lieto». «Ti ringrazio ma noi Caracciolo siamo una famiglia nobile e abbiamo le tombe a Napoli».
La camminata continuò e alla fine arrivammo alla stanza da letto. Aveva una porta d’uscita indipendente e un arredo tipico di una garçonnière. Lui ne era molto soddisfatto. Aveva una casa anche a Milano ma spesso era ad Arcore il suo sito preferito. «Eugenio vive a Roma, ma tu Carlo? Ti do la chiave e vieni quando ti pare», «Silvio io abito a Milano e vivo solo».
Infine entrammo nella sala di musica. C’era un bel pianoforte a coda e ci disse che era il pianoforte di Toscanini. «Volete che Fedele vi suoni qualche cosa?». Io risposi che l’avrei molto gradito, Carlo si sdraiò su un divano, era stanco e si addormentò alle prime note. Chiesi la “Rapsodia in blu” e Fedele a memoria suonò per mezz’ora benissimo. Alla fine ci alzammo per andarcene ma Silvio ci disse che voleva farci sentire le sue canzoni, o almeno quelle che più di frequente suona e canta. Naturalmente fummo costretti a risederci e lui cantò “Stormy Weather”, “Polvere di stelle”, “Milord”, “Parlami d’amore Mariù” e qualche altra che non ricordo. E così finì la serata. Avremmo dovuto parlare di Rete 4 ma «gli affari si rimandano. Prima si diventa amici e noi mi pare che siamo sulla buona strada».

***

I contatti durarono a lungo, l’affare Rete 4 fu concluso. Ci vedevamo spesso finché lui cominciò ad occuparsi di politica. Per metà diventò socialista (craxiano ovviamente) e fu lui ad inventare lo slogan “Milano da bere”. Per l’altra metà diventò democratico cristiano, vicino ad Andreotti e a Forlani. Questo triplice sodalizio si chiamò con le tre iniziali CAF. De Mita naturalmente era detestato dai tre del CAF e da Berlusconi, il quale serviva ai tre del CAF e loro servivano a lui. E fu poi quel quadrilatero a rompere il monopolio della Rai. Nel frattempo accadde che Indro Montanelli ruppe con il “Corriere della Sera” e fondò “Il Giornale” ma i soldi non li aveva e fu Berlusconi a fornirglieli, prima senza apparire, ma poi diventando scopertamente l’editore.
“Il Giornale” cominciò a sostenere la destra o meglio la destra berlusconiana diffondendo anche qualche notizia del tutto falsa nei confronti degli avversari politici di Berlusconi e quindi anche nei nostri confronti. A mia volta scrissi il 13 gennaio 1990 un articolo diventato celebre per via del titolo tratto dal libretto dell’Opera da tre soldi scritto da Bertolt Brecht: “L’ultima minaccia di Mackie Messer”. Poi Berlusconi si presentò alle elezioni del ’94 ed io scrissi un altro articolo il 22 gennaio 1994 intitolato “Scende in campo il ragazzo coccodè” preso da una celebre trasmissione di Renzo Arbore. Lì però sbagliai: non era affatto il ragazzo coccodè e ce lo ritrovammo sul gobbo per vent’anni e ancora non è finito.
Debbo dire che invecchiando è migliorato, l’età porta guai ma anche qualche prestigio. Non ho qui parlato della “guerra di Segrate” quando lui cercò di impossessarsi di “Repubblica” ma per fortuna non ci riuscì, pur avendo comprato un giudice della Corte d’appello di Roma che fu scoperto e si rifugiò nello studio di Previti.
Ma durante la “guerra di Segrate” ci fu un particolare divertente. Ciarrapico, molto amico di Andreotti, era stato scelto come mediatore e dopo sette mesi riuscì faticosamente a trovare l’accordo tra il nostro gruppo, rappresentato da Carlo De Benedetti, e Berlusconi. L’accordo doveva essere reso pubblico un certo giorno ma scoppiò il caso delle spese legali, che ammontavano a 50 milioni in lire. Ciarrapico risultava introvabile, per riposarsi era andato con una ragazza in un hotel. Caracciolo aveva cercato di far intervenire direttamente De Benedetti, ottenendone peraltro un rifiuto perché era evidente che le spese legali non toccasse pagarle a chi aveva vinto la contesa ma a chi l’aveva persa, ed era Berlusconi. Il quale tuttavia rifiutava in modo assoluto e diceva che semmai sarebbe nata una crisi legale per vedere chi dovesse pagare.
A quel punto dovetti intervenire io e dopo molti suoi rifiuti riuscii a persuaderlo promettendogli e dandogli la mia parola d’onore che se lui accettava di pagare le spese legali io l’avrei trattato d’ora in avanti come un socio cioè eventuali notizie che lo riguardassero sarebbero state anzitutto rese note a lui che ne dava la sua interpretazione dopodiché l’inchiesta sarebbe andata avanti come sempre accade in tutti i giornali. Lui ci pensò qualche minuto e alla fine mi disse che accettava e il mio impegno durò fino a quando divenne presidente del Consiglio.
Da quel momento non l’ho più visto né sentito.

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Mario Ajello per Il Messaggero

Ottant’anni in 20 parole. Potrebbero essere 200 o 2.000 o 200.000 perché il tipo – Silvio Berlusconi che oggi compie 80 anni e per la prima volta dice di avere la coscienza del tempo che è passato: «Ormai sono un patriarca» – è notoriamente torrenziale in tutto: nella retorica, nelle cose fatte, subite, superate, nel modo di porsi dentro il flusso della storia italiana in buona parte da lui modellata negli ultimi decenni. «Confesso che ho vissuto», potrebbe essere questo il titolo – rubato a quel comunista di Pablo Neruda – di un’autobiografia di Silvio. 
AMICIZIA. Una delle rivoluzioni berlusconiane, rispetto all’Italia classica dove gli affetti non si esibivano sulla scena pubblica, è stata quella dell’amicizia continuamente rivendicata. Quella con Gianni Letta, quella con Fedele Confalonieri che proprio in queste ora racconta: «Insieme abbiamo percorso una meravigliosa corsa di 43 anni di sodalizio. Ma io sono sempre restato sul sedile di dietro». Ma in politica, parola di Silvio: «Non ho nessuno che posso chiamare amico». Gli amici sono rimasti quelli di prima. 
BARRIERE. Alcune le ha frantumate, unendo spicchi del centro e della destra italiana: i post-fascisti, certa democristianeria, la cosiddetta maggioranza silenziosa, i benpensanti e i conservatori, i liberali e gli anti-comunisti. Altre barriere le ha alzate: quella tra i moderati e la sinistra. Vedi voce seguente. 
CULTURA. Uno dei pilastri culturali di Silvio sta in questo consiglio che un ghost writer diede a Richard Nixon: «Se spacchiamo il Paese a metà, possiamo prenderci la metà più grossa». 
DELFINI. La ricerca è cominciata quando aveva 70 anni. Il risultato lo sintetizza lui stesso: «C’è sempre più bisogno di Silvio». 
ECUMENISMO. Non stupisca questa parola revisionista. Non è vero che Berlusconi sia un decisionista. Non è vero che imponga la sua volontà. Non è vero che sia un autocrate o un autoritario. Semmai, l’opposto – perfino troppo: «Io sono buono e faccio squadra, Renzi è cattivo ed è un solista» – e, a parte che nei suoi interessi aziendali, non è stato capace o non ha voluto, imporsi davvero. 
FORTUNA. Bisogna saperla conquistare, avendo «il sole in tasca». Il suo ha brillato, tra alti e bassi, per 80 anni. 
GIOCARE. Silvio «homo ludens» e «puer aeternus»: «Chi non sorride fa male a se stesso e agli altri». L’Italia ha cercato di farsi contaminare da questo spirito che prima ha travolto il mondo della tivvù – la Rai di colpo diventò barbosa e fu costretta a modernizzarsi – e poi l’intera sfera pubblica. 
INNOVAZIONE. «Io ricevo 200 lettere al giorno e sono delle massaie, felici perché ho regalato loro la libertà con le mie televisioni che guardano al mattino mentre fanno i mestieri di casa. Se pensassi di entrare in politica, io non farei il borgomastro di Milano, ma fonderei un partito reaganiano, punterei proprio su quel mondo, prenderei la maggioranza dei voti e governerei il Paese». 
LEADERSHIP. Ovviamente carismatica. 
MANOVRE. Quelle dei giudici, dei comunisti, del «vecchio establishment», dell’Europa matrigna, dei poteri internazionali che avrebbero tramato per farlo cadere del 2011. Il dark side del super-Io è la sindrome del complotto.
NAZIONAL-POPOLARE. Fin da bambino si è sentito così: «Giocavo con tutti. Con i figli dei benestanti e con i figli dei poveri». Da imprenditore ha insistito sulla strada del pop e anche successivamente: a quale statista sarebbe mai venuto in mente di recarsi a una festa di ragazzi nello sprofondo dello squallore napoletano di Casoria, con tutti i guai pubblici e privati che sono derivati? Ma la pazza idea, profondamente pop, di creare un «partito liberale di massa» (copyright Gianni Baget Bozzo) poteva venire in mente solo a lui. 
OCCHETTO. Nel faccia a faccia elettorale del 94, tra Berlusconi e Occhetto, la pettinatura, l’abito, la retorica, i ritmi e gli sguardi di quest’ultimo hanno codificato nell’immaginario pubblico l’idea di sinistra. Ed è stato Silvio, tra americanismo e ottimismo, a stimolare questa codificazione. Durata fino all’avvento di Renzi. 
PASSIONI. «La politica non mi ha mai appassionato». Ha detto Berlusconi in occasione di questo suo compleanno. Non è vero. E negli ultimi anni, durante tutte le sue traversie, ha sempre ripetuto: «Il personale non è politico». Non è vero neanche questo, come s’è dimostrato ai suoi danni. 
QUATTRO. I «Quattro doctores» era il nome della band in cui, sulle navi da crociera, Silvio cantava e suonava il basso e Fidel Confalonieri stava al piano.
RIVOLUZIONE. Liberale o conservatrice. «La mia prima rivoluzione l’ho fatta fondando Milano 2». Poi cercando di diffondere l’idea dello «Stato minimo», ossia non invadente né prevaricatore, o mischiando politica e anti-politica (Grillo è un epigono), o in generale proponendo una nuova ideologia italiana e arci-italiana in un cocktail di iper-continuità e iper-modernità. 
SENTIMENTALISMO. «Mi manca Mamma Rosa. Da quando non c’è più lei mi sento solo. Anche se Marina mi è figlia ma mi è anche sorella e madre». E Francesca? Resiste: anche se la differenza d’età ora Silvio comincia a sentirla.
TRAGEDIE. «La cosa che mi fa più male, dopo tutti gli acquisti, gli schemi di giuoco e gli straordinari successi che gli ho procurato, è stata la cessione del Milan». L’epopea cominciò nel 1986, ora s’è scoperto che i comunisti (cinesi) non mangiano i bambini ma il diavolo. 
UNITED STATES. Atlantismo forever. «Sono un milanese a stelle e strisce», così si presentava ai clienti negli anni 70. Poi però la scoperta.... Vedi voce seguente. 
VLAD. Nel senso di Putin. Dopo aver inventato «lo spirito di Pratica di mare» («Si deve a me se la guerra fredda è finita»), Silvio nel suo autunno ha sempre di più indossato il colbacco. 
ZIO. «Vuole essere lo zio degli italiani», diceva di lui Umberto Eco. Ora Silvio assicura di voler fare soprattutto il nonno dei suoi nipotini. Difficile crederci.

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Paolo Pombeni per Il Sole 24 Ore
Berlusconi compie 80 anni: un traguardo e un inevitabile invito a fare bilanci. Operazione complessa per un uomo che si deve definire proteiforme. Perché in Berlusconi hanno vissuto tanti personaggi, anche contraddittori fra loro, ma costretti in qualche modo a fondersi in un’esperienza che non è eccessivo definire singolare.
Sulle sue qualità come sulle sue contraddizioni l’uomo ha costruito quasi una leggenda. Le fortune del suo esordio politico sono legate all’immagine del suo successo come imprenditore che si era costruito dal nulla. Allora il suo messaggio implicito era: se ce l’ho fatta io, ce la può fare anche l’Italia. I suoi avversari e anche i suoi nemici (le due categorie non coincidono) gli rinfacciavano se davvero credeva che per gestire le fortune di un paese potessero valere certe regole di spregiudicatezza che aiutano nella scalata al successo economico. La risposta di Berlusconi è sempre stata positiva.
Quando sarà possibile fare una valutazione storica sfuggendo alle passioni di parte, si dovrà misurarsi con l’inevitabile ambiguità del successo in politica, soprattutto quando questo arriva sotto le forme di un personaggio che si impone come arbitro di una fase di passaggio. Perché l’uomo di Arcore questo è stato: il protagonista di una grande e complicata fase di passaggio nella storia della politica italiana. Innanzitutto ha dettato una logica personalistica della battaglia politica che da noi era sconosciuta: non lo scontro fra due ideologie, ma la scommessa su un personaggio che prometteva di risolvere i problemi del paese. Il sistema era spaccato fra chi era con lui e chi era contro di lui, senza che nessun avversario sino all’ultima fase della sua avventura riuscisse a diventarne il contendente unico. Non è un dato banale, anzi quando era in auge è stato una radice della sua forza, perché è sempre riuscito a fare in modo che i suoi competitori venissero battuti non tanto da lui direttamente quanto dalle gelosie interne al campo dei suoi avversari.
Vista con un po’ di distacco è stata anche la sua debolezza, perché quel ruolo lo ha sempre costretto alla politica dello stare sopra le righe: non solo proclamando a ripetizione splendenti soli dell’avvenire che nascevano sul paese, ma anche finendo spinto a stili di vita che sottolineassero come chi era partito come un uomo comune era diventato un soggetto fuori del comune.
Si è discusso molto, forse troppo della politica dell’immagine e della comunicazione, magari dimenticando che il fenomeno andava ben oltre gli spazi della nostra vita nazionale. È però sbagliato credere che tutto sia stato solo immagine. Quel che Berlusconi ha realizzato nel momento del tracollo della prima repubblica è stata una operazione di tenuta del sistema, perché ha impedito che lo sbandamento delle sedimentazioni di potere aprisse una fase di guerra per bande senza regole e senza prospettive. Proprio la sua centralità semi-dittatoriale ha costretto tutti a ricomporre il puzzle degli schieramenti senza che nessuno potesse eccedere nella politica del “non si fanno prigionieri”. Non si può dimenticare che nell’ultimo quindicennio del XX secolo quella era una tentazione molto diffusa.
Il ventennio che da lui prende il nome è stato un coacervo di contraddizioni che in fondo non si è stati capaci di decifrare. Ne siamo poi finiti travolti tutti, ma non è serio attribuire al solo Berlusconi la colpa di quell’esito. Certo lui ha avuto non poche responsabilità, ma il paese gli è anche andato dietro, vuoi esaltandolo da cortigiani, vuoi condannandolo per partito preso.
Toccherà alla storia valutare a freddo e con la giusta distanza prospettica i risultati positivi e quelli negativi conseguiti in un ventennio vissuto sempre da protagonista, ma il solo fatto che la storia dovrà valutare questa esperienza è testimonianza che si tratta di un personaggio che rimane singolare e con cui non si può evitare di fare i conti.