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 2016  settembre 28 Mercoledì calendario

Com’era la storia del rigore e della precisione di D’Avanzo?

La tomba del contendere è quella di Giuseppe D’Avanzo, collega di Repubblica morto cinque anni fa e personaggio che il gruppo Espresso-Repubblica ha cercato di risantificare in modo quantomeno improbabile, cioè citando le «dieci domande» che il giornalista rivolse a Berlusconi nel 2009 a proposito del caso Noemi Letizia.
Forse era meglio lasciar perdere, ne abbiamo parlato ieri: non fu vera gloria, anzi, fu una pagina vergognosa del giornalismo italiano basata su illazioni che non sfociarono in nulla, neppure in un’indagine. L’unico esito certo fu lo sputtanamento mondiale del Paese e lo sbalestramento di Noemi Letizia, figlia di due amici di Berlusconi: una vicenda che come le allusive domande di D’Avanzo non aveva nulla a che fare coi successivi casini sessuali e giudiziari di Berlusconi legati al “caso D’Addario” nonché al “Caso Ruby”.
Ora però è successo che i direttori del Giornale e di Repubblica, Alessandro Sallusti e Mario Calabresi, si sono virtualmente menati: il primo ha definito D’Avanzo «morboso, rancoroso, spregiudicato e asservito ai peggiori magistrati», il secondo ha associato Sallusti a «calunnie» e a «campagne di discredito» e, viceversa, ha elogiato «il rigore» e «la precisione» di D’Avanzo.
Ora: prender parte alla partita non è obbligatorio, e poi c’è il problema di parlare di un morto: che fare? Parlarne male solo da Hitler in su? No, certo: diciamo che se inizia un processo di beatificazione c’è da aspettarsi che qualcuno eccepisca. Al fascicolo sulla canonizzazione di D’Avanzo, perciò, ci limitiamo ad accludere le note seguenti.
1) Nel 1989 Giuseppe D’Avanzo scrisse su Repubblica, a proposito di Alberto Di Pisa giudice accusato di essere «il corvo» che voleva mascariare l’Antimafia siciliana e Giovanni Falcone che «forse Di Pisa è soltanto un uomo frollato dalla lunga attesa di un pubblico riconoscimento, di popolarità e potere, un piccolo uomo sbriciolato dall’invidia e dalla gelosia, precipitato nel gorgo di un risentito rancore». Poi Alberto Di Pisa fu pienamente assolto, mentre D’Avanzo non disse una parola e non si rimangiò nessuno dei pessimi articoli che aveva dedicato all’argomento. Com’era? Il rigore.
2) Qualcuno ricorderà il delitto di Mauro Rostagno: ebbene, nel maggio 2009 si scoprì che era un delitto di mafia con tanto di esecutori già sotto processo. Giuseppe D’Avanzo ne aveva scritto e riscritto infinite volte assieme al collega Attilio Bolzoni, ovviamente su Repubblica: ma accreditando una pista tutta sbagliata e peraltro condotta dal solito pm Antonio Ingroia. Colui che nell’inchiesta (sbagliata) fu completamente sputtanato si chiama Francesco Cardella, personaggio a cui nessuno ha mai rivolto scuse: anche se fu accusato di assassinio assieme alla sua donna, Chicca Roveri, a lungo in carcere. Giuseppe D’Avanzo e Attilio Bolzoni sostennero una tesi che era già crollata quando, nel 1996, scrissero per la berlusconiana Mondadori il libro Rostagno: un delitto tra amici dove riproposero l’identica tesi sbugiardata: cioè che un innocente era colpevole, anzi, era l’assassinio del suo amico. Com’era? Il rigore.
3) Nello stesso periodo, Giuseppe D’Avanzo (sempre con Bolzoni) aveva appena pubblicato anche La giustizia è cosa nostra, altro libro pubblicato per la stessa Mondadori del Cavaliere, che allora era già in politica: un bel tomo tutto nero come la toga del giudice Corrado Carnevale, che veniva impiccato alle accuse d’aver favorito Cosa Nostra. Poi ne uscì scagionato anche lui, ma nessun ripensamento, nessuna resipiscenza, solo fango lasciato seccare. Il rigore.
Il 18 settembre 2009 ci fu la strage di Castelvolturno, qualcuno la ricorderà: furono trucidati sei immigrati africani e un italiano in piena zona gomorra. D’Avanzo si auto-inviò sul luogo per un reportage. Prima prefigurò una probabile matrice non criminale e possibilmente razzista dietro al fatto che gli ammazzati, «alla cieca», non fossero nigeriani bensì «sei ghanesi innocenti»: salvo scoprire che i ghanesi erano tre, e che altri erano liberiani più un togolese e soprattutto un camorrista. In seguito D’Avanzo espose la tesi dei «neri che chiedono più Stato» (tutti rigorosamente «innocenti») e per accreditarla tirò in ballo anche Roberto Saviano, citandolo laddove aveva scritto, in precedenza, che un tempo da quelle parti la gente «non era crudele con gli africani... bianchi e neri lavoravano assieme...». Tutto per arrivare a dire, D’Avanzo, che «quel che accade è una vendetta della realtà contro le semplificazioni del format di governo che non descrive nulla della società contemporanea... È la rivincita del mondo reale sul posticcio affresco italiano diffuso da ministri, a quanto pare, popolarissimi (...) e allora perché meravigliarsi se i Casalesi, una banda di assassini che controlla gli affari di droga e utilizza nelle sue imprese il lavoro nero, possono pensare di fare una strage di neri solo per ammazzarne uno?».
Gli rispose, forse senza volerlo, direttamente Saviano. In un video su YouTube, spiegò che la mafia nigeriana in realtà era ancora più cruenta della camorra, che costringeva ragazzine di 12 anni a fare le schiave o le prostitute; il traffico abnorme di droga che giungeva puntualmente dalla Nigeria aveva spinto i nigeriani a smetterla di dar quote alla camorra: questo era alla base della strage di Castelvolturno, i ministri e i format di governo (governo Berlusconi, ovviamente) c’entravano come il giornalismo a Repubblica.