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 2016  settembre 28 Mercoledì calendario

I weekend di Natascha Kampusch nella casa in cui fu segregata

Una storia che affonda le sue radici più profonde nei meandri della psiche umana e nel suo lato oscuro. Un incrocio tra una sceneggiatura di Stanley Kubrick e un’avventura dei primi Dylan Dog, dove l’orrore si rivelava per quello che in fondo è: ossessione portata al parossismo. Come definire altrimenti l’atteggiamento di Natascha Kampusch che rapita all’età di 10 anni da uno psicopatico e tenuta in prigionia per 8 anni e mezzo una volta riuscita a fuggire dalle grinfie del mostro ha scelto di comprare la sua abitazione e di trascorrerci i fine settimana, pulendola con cura meticolosa da cima a fondo? In un’esclusiva intervista a “Channel Seven’s Sunday Night” la ragazza, ormai 28enne, afferma che abitare nella casa degli orrori è «in qualche modo terapeutico». Della prigione in cui veniva rinchiusa e torturata resta una lapide, con apposta la data “2011”. Quando le chiedono perché non vende l’abitazione, Kampusch risponde che non vuole darla in pasto ai «turisti dell’orrore». E dunque, grazie alle sue cure, l’edificio è rimasto esattamente identico a 10 anni prima, quando ancora la bestia abitava fra quelle mura. Una prigione che evidentemente è rimasta nella mente di Natascha. E di cui non riesce a liberarsi davvero.
Quello di Natascha Kampusch è un reale fatto di cronaca, narrato dai giornali di tutto il mondo. La giovane austriaca era una bambina di 10 anni che, passeggiando con il suo zainetto sulle spalle per andare a scuola, è stata presa di forza e caricata in macchina da uno sconosciuto, che l’ha portata via dalla famiglia, lontano dalla mamma e dal babbo, dagli amici e compagni di scuola, dal suo universo di corse nei prati e giochi all’aria aperta. Era il marzo del 1998 quando la giovane è stata sequestrata da Wolfgang Priklopil, uno squilibrato affetto da schizofrenia e probabilmente bipolarismo. L’uomo, tecnico elettronico, rinchiuse la bimba in un’angusta prigione nascosta nel seminterrato della sua casa a pochi chilometri da Vienna, costringendola a digiuni forzati e facendone la sua schiava. Per otto anni e mezzo la ragazza ha vissuto con il mostro, crescendo tra torture fisiche e psicologiche, stupri, percosse. Con lui ha perso la verginità e ha trascorso gli anni della sua adolescenza: quando non veniva rinchiusa in prigione era sorvegliata ogni istante.
Il 23 agosto 2006, però, ecco la possibilità di salvezza: Priklopil, intenzionato a vendere la sua auto, chiede alla ragazza di lavarla. Il getto della pompa, piuttosto rumoroso, costringe il rapitore ad allontanarsi di qualche metro per telefonare. Qualche secondo di distrazione che la Kampusch sfrutta a suo vantaggio: si lancia di corsa verso il cancello; solitamente c’è qualche oggetto pesante a impedirne l’apertura, quel giorno no. È fuori, nel mondo esterno. È libera, e continua a correre verso la salvezza. Il suo carnefice, invece, è arrivato al capolinea: si lancia sotto i binari e viene schiacciato da un treno in corsa, suicidandosi all’età di 44 anni.
 Eppure otto anni sono tanti, specie in un periodo così delicato, il passaggio dall’infanzia all’età adulta: un rituale che la giovane austriaca ha vissuto tra le grinfie di uno schizofrenico. Pur avendo scritto un libro sulla sua esperienza (“Ten years of freedom”) che, insieme alle numerose ospitate televisive, le ha fruttato un patrimonio di diversi milioni, la Kampusch è rimasta la bambina di allora, quando è stata portata via dai suoi affetti. E vive questo eterno ritorno dentro la casa degli orrori come una sorta di espiazione, come se quello fosse ormai l’unico spazio al quale è destinata: una condanna a obbedire agli ordini del suo aguzzino che, nonostante sia morto, ha fatto in tempo a posare gli artigli sulla psiche della sua vittima. Dove una parte di lui non se ne andrà mai più, continuando a vivere in lei.