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 2016  settembre 27 Martedì calendario

Visita all’archivio amministrativo della Dc in un appartamento di Avellino, dove si è spiaggiata la grande Balena Bianca

Il citofono c’è ma non funziona, e bisogna aspettare che qualcuno venga ad aprire. È dunque in questo modesto e polveroso appartamento in ristrutturazione nel centro di Avellino che alla fine è venuta a spiaggiarsi la balena bianca. Dal pleistocene democristiano agli ultimi giorni di vita: quel che resta del partito di De Gasperi e Fanfani, Andreotti e Martinazzoli è tutto tra queste quattro mura. È in cantina, tra un salotto accatastato e suppellettili varie.
«He has taught classes and seminars in Pontificial Institute for Family and Marriage in Rome...». La prima cartellina che spunta fuori è quella con il curriculum di Rocco Buttiglione. Correva l’anno 1994, l’ultimo della storia Dc, e Mino Martinazzoli, il segretario della fine, doveva nominare un responsabile etico del partito, ormai già inseguito dai balenieri di Tangentopoli. Gli avevano segnalato quello che allora veniva definito «il filosofo del Papa», e così Martinazzoli si trovò tra le mani un curriculum scritto a mano e per giunta in inglese. Lo passò agli uffici perché provvedessero alla traduzione e ora è finito tra i resti dell’archivio amministrativo della Dc che proprio Buttiglione, sollecitato da Gianfranco Rotondi, ha lasciato che si trasferisse nella sede avellinese, la stessa che per anni ha ospitato la Fondazione dedicata a Fiorentino Sullo, il maestro scomodo di De Mita. In cantina c’è ancora una vecchia foto di un comizio in città: De Gasperi è ben visibile, Sullo non più, «cancellato» per damnatio memoriae.
In quest’archivio, che gentilmente Rotondi da alcuni giorni offre in visione a chi lo vuole consultare, c’è di tutto un po’: dalla relazione originale sul caso Lockheed, per cui Moro disse che la Dc non si sarebbe fatta processare nelle piazze, ai solleciti degli avvocati per le spese processuali accumulate negli anni. E tra i legali che scrivono c’è chi, scoraggiato dai ritardi nei pagamenti, rinuncia ai compensi; chi mette una pietra solo sopra i rimborsi spese; e chi invece alla fine riesce finalmente ad ottenere (c’è la fotocopia) anche un assegno di duecento milioni di lire. Carte lette e rilette dalla Guardia di Finanza mentre Citaristi, lo storico amministratore della Dc, inanellava i suoi 77 avvisi di garanzia. Dunque, senza più alcuna rilevanza giudiziaria. Diverso, invece, il discorso sul valore politico della documentazione. Qualcosa potrebbe venire fuori proprio sul caso Moro, perché qui sono finite anche le registrazioni audiovisive di tutte le Direzioni nazionali, comprese quelle convocate quando il partito fu chiamato a decidere sul ricatto dei terroristi. Le voci di allora sono incise su vecchie cassette da riversare: si spera in ricercatori finanziati da un’università romana.
Il valore nostalgico, invece, è indubbio. Rotondi si muove tra questi faldoni come un nipote affettuoso tra gli album di famiglia. Li tira fuori dagli scaffali, li spolvera, li sfoglia e sospira: «Questo sì che era un partito! Questa sì che era politica!». Tutto, per lui, assume un valore trascendente. Perfino le raccomandazioni, «testimonianze di un partito-mamma più che di un partito-Stato». Perfino le lettere riservate (di cui restano solo le buste vuote) di magistrati amici che si esprimevano sull’opportunità di certe candidature «conferma di un tempo in cui le istituzioni collaboravano...». Perfino l’ossessione del controllo dell’editoria locale, generosamente finanziata, come si legge nei bilanci ingialliti, «per arginare la dilagante egemonia del Pci». A proposito: cosa ci faceva, tra i periodici fiancheggiatori, quella Realtà comunista che per tutto il 1961 ha ricevuto dalla Dc un contributo mensile di 368.453 lire? «Sarà stata una sorta di infiltrazione editoriale», spiega candido Rotondi.
La parentesi apertasi nell’aprile ’48, quando la Dc prevalse sul fronte delle sinistre, si era ormai chiusa nel giugno del ’53, anno in cui la sconfitta sulla legge maggioritaria rimise in gioco il Pci: ecco perché la comunicazione e la propaganda divennero di colpo decisive. «I giornali – ricorda Rotondi – furono la patologia dei conti della Dc. Il Popolo assorbiva gran parte dei bilanci, per non parlare del Mattino di Napoli». Nel 1960, ad Avellino la segreteria provinciale spese 10 milioni di lire per acquistare apparecchi tv. A Napoli 5 milioni. Richiamavano gente nelle sezioni. E, nel suo Veneto, Antonio Bisaglia portava la contabilità dei titoli e delle colonne che il Gazzettino dedicava ai parlamentari democristiani. Si arriva così fino a Flaminio Piccoli che invita la segreteria amministrativa nazionale a non indulgere con i pubblicitari delle tv private, soprattutto quelle di Silvio Berlusconi, perché «sono convincenti nel proporre i loro spot, ma poi bisogna pagarli».
Sul filo dei ricordi, Rotondi insegue una suggestione. E se dopo tanto penare fosse venuto il tempo per un ritorno della Dc? «Ogni tanto torna questa ipotesi. Ma questa volta c’è il referendum istituzionale. E questa volta i De Mita, i Bianco, i Cesa sono tutti per il No. Potremmo chiedere a Buttiglione, che ne è l’ultimo proprietario, il simbolo dello scudo crociato. E da qui ripartire. Ne ho anche parlato con Berlusconi...».