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 2016  settembre 26 Lunedì calendario

A trent’anni dalla sua morte si ristampano i primi racconti di Goffredo Parise. E ci accorgiamo di quanto ci manca

In coincidenza con l’anniversario dei trent’anni della sua morte – morì, Goffredo Parise, cinquantasettenne, il 31 agosto del 1986 – Adelphi ha ristampato, con la prefazione di Cesare Garboli e la cura di Domenico Scarpa, Gli americani a Vicenza: vale a dire la raccolta dei suoi racconti giovanili. Riletti dopo tanto tempo, sembrano quasi tutti (fatte solo pochissime eccezioni), belli, molto belli, o bellissimi: come i racconti dei due Sillabari.
L’ambiente è il Veneto. La provincia veneta cattolica e bigotta del secondo dopoguerra (quando «arrivarono gli americani»), con i suoi patronati per i ragazzi, governati da preti severi e loschi, immersi nelle cupe penombre della sopraffazione e del peccato; con i collegi per le orfane rivestite con le maglie di lana dei morti e le salme imbalsamate delle monache circondate dalle candele, dall’odore della morte perenne e dal mormorio estenuante delle preghiere; le osterie impregnate dal sentore forte del tabacco e del vino; i conventi con le monachine che per ore lavano i panni guardando in basso e un giorno si scoprono a prolungare lo sguardo oltre, verso il cielo e il profilo nero dei monti; i vagheggini che all’angolo di una strada, appoggiati a una colonna palladiana, aspettano per mesi, e anni, che una mano femminile sollevi una tendina; le pensioni modeste sulle Prealpi, sulla strada, alle quali si arriva in corriera per una breve vacanza; la campagna «barbara» e selvaggia, con i suoi torrenti e i suoi canali, l’erba e il fieno, le casupole arroccate sui burroni, le ville misteriose abitate da personaggi «strani», la nebbia, il suono lento e sperduto delle campane. Il mondo è quello che una parola stantia potrebbe definire «surreale», in cui hanno cittadinanza gli imbroglioni e i galantuomini, gli stupidi e i furbi, i poveri e i ricchi, i saltimbanchi e gli irreprensibili, le signore e le «monelle», la verità e le frottole, le apparizioni e le allucinazioni. E nel quale, a conferire la cittadinanza a chiunque lo attraversi con la sua vita, è una profonda pietà.
Parise amava il Veneto. Amava il contatto con la natura, gli orti, i frutti, le piante, le sue acque, i suoi temporali oscuri che negli ultimi anni gli toglievano la vista. Amava il greto del Piave sul quale si era costruito una casetta nella quale viveva solo, con pochi libri e i gufi che entravano dal camino, il focolare e la stufa. Amava Giovanni Comisso, lo scrittore veneto che in questo libro è riconoscibile nel personaggio che dà il titolo a un racconto: Frate gioioso, perché in lui (che poi, in molti altri racconti, avrebbe descritto fisicamente come un contadino con la nuca larga o un mediatore di bestiame) vedeva incarnata, oltre alla figura paterna che inseguì per tutta la vita, l’alchimia inscindibile dell’uomo e della terra. Amava le case venete di campagna. Quelle grandi case coloniche con una parte disabitata e fredda e una parte riscaldata dal focolare o magari da una nuova stufa di ghisa, dove, nelle prime sere di inverno – come in uno splendido racconto dei Sillabari intitolato Casa – ci sono degli ospiti, fuori fa freddo, arriva pure un prete, al centro della tavola c’è una pentola di patate al sugo, si parla di riscaldamento e di cibo, si esce in cortile, qualcuno pronuncia la parola «oca» e in quello stesso istante comincia a cadere la neve.
Del Veneto, Parise amava tutto. Ma era anche molto inquieto. Fuggiva; faceva dei viaggi spericolati in cui, per il «Corriere», raccontava le guerre (in Vietnam, in Biafra) e dei viaggi nei quali voleva soltanto conoscere (l’America, la Cina, il Giappone); prendeva casa a Roma, nel quartiere della Camilluccia, vicino a quella di un altro suo padre: Carlo Emilio Gadda; tornava in Veneto; tornava a Roma, magari per rinchiudersi in un monolocale assurdo tutto foderato di legno di radica come una tabacchiera; aveva nostalgia dell’aria di Cortina; in Veneto barbaro di muschi e nebbie, scritto probabilmente in quella assurda stanza, metteva giù queste righe: «Riflettevo: alla sublime bellezza di Capri, alla emozionante vita a New York, alla dolce Parigi, alla cupa Mosca, alla polverosa e immensa Pechino, alla bellezza del Mediterraneo con il suo mare e coste su cui scorre la voce delle sirene e mi chiedevo, non senza turbamento: che cosa mi inchiodava sempre più spesso a quell’albero di more, a quelle nebbie, al fiume Piave, alle montagne vicine?».
Quanto era bravo! Animato dal medesimo dono materico e istintivo che aveva Comisso, nonché dalla folgorante capacità di penetrare nell’anima di chiunque, in particolare dei diseredati, dei vecchi e dei bambini, e degli apparentemente felici, allo stesso modo del Truman Capote dei primi racconti, scriveva – come giustamente osserva Garboli nella prefazione a Gli americani a Vicenza – prima di pensare (dote, questa, fondamentale, sconosciuta ai più), riuscendo a definire in pochissimi tratti l’essenza dell’individuo. Con Capote si erano conosciuti a Venezia, quando entrambi erano al loro primo libro: lui, appena ventunenne, aveva scritto Il ragazzo morto e le comete, l’altro, venticinquenne, Altre voci, altre stanze. Truman, già famoso e parecchio più snob di Parise, sfoderò subito una battuta mondana: «Andiamo all’Harris Bar: fanno il più buon latte bollito del mondo». Dieci anni più tardi si rividero a New York, al Morocco, un noto locale notturno frequentato dal jet set. Dal latte bollito, Capote era passato a ben altri tipi di bevande. Era ingrassato un po’, infatti. Stava con una ragazza che Parise non riconobbe subito: piccola di statura, ma di proporzioni perfette, aveva un vestitino molto corto di Bloomingdale, scarpe da tennis impolverate di rosso, niente calze, capelli biondissimi e occhiali da vista, «si sarebbe detto completamente nuda sotto quella maglietta di filo di scozia». Era Marilyn Monroe.
Goffredo la invitò a ballare: «Al contrario della sua immagine cinematografica, Marilyn, come del resto il suo accompagnatore, era un unicum, si sarebbe detto organico, tanto da far pensare a un corpo trasparente, un po’ come le libellule, attraverso il cui corpo si vede. La voce, quel pigolio-miagolio, lo confermava e ancora una volta, come sempre, l’odore: non il profumo, bensì l’odore, qualcosa tra lo zolfo e una capretta di latte».
Sono trascorsi trent’anni: così velocemente. E ci manca molto la voce di Goffredo Parise. Ci manca la sua intelligenza libera, non asservita a nulla, con la quale rispondeva, sui temi più astrusi e più semplici, alle domande che gli rivolgevano i lettori del «Corriere della Sera» (per esempio sulla educazione sessuale nelle scuole: lui rispose che, all’età giusta, sua madre lo affidò a un missionario cinese che non sapeva una parola di italiano, e così, in quel silenzio, si educò). Ci manca la sua aristocrazia intellettuale. Ci manca l’ironia con la quale prendeva in giro Franco Fortini (autore di un articolo in cui si auspicava il «parlar chiaro» che lui aveva riletto quattro volte senza capire nulla). Ci manca la ferocia con la quale sferzava gli intellettuali – italiani e francesi – asserviti al Partito comunista. Ci manca di sapere cosa avrebbe detto, oggi, di quello che sta capitando nel mondo: dei finti buoni e dei veri cattivi, della letteratura corrente e delle scuole di scrittura e dei loro insegnanti, del Papa e della Chiesa, del mare, del clima, delle città, della Cina senza Mao, di Putin e di Obama, della bioetica, dei generi maschile femminile e neutro, di qualunque cosa.
A me, poi, manca proprio la sua voce: quella voce roca, da fumatore, lievemente cantilenante. Mi dava consigli molto pratici per la pagina (sposti un pochino, faccia più dialogo, così il lettore non si spaventa del muto delle parole, ecc.) e molto pratici per la vita. Quando prendemmo un aperitivo a via Veneto, prima che partisse per il Giappone, per esempio, si raccomandò caldamente che conservassi lo scontrino: «Così, sorrise, la casa editrice glielo rimborsa». E quando mi proposero un lavoro per il quale dovevo stare in ufficio dalla mattina alla sera, cosa che mi spaventava moltissimo, mi spiegò il trucco: «Lei si mette in ufficio una brandina smontabile e il pomeriggio si fa il suo sonnellino». Lo sentii l’ultima volta pochi mesi prima che morisse, al telefono. Era uno di quei pomeriggi insulsi, ancora con poca luce, nei quali uno si immagina cosa sta facendo un’altra persona. Io ero a Roma, lui in Veneto. «Che fa?» gli domandai. «Vado in macchina», mi rispose. «E perché?». Mi rispose: «Perché me la sento addosso, caro Montefoschi».