la Repubblica, 23 settembre 2016
Ai bambini il calcio piace ancora, ma non quello reale
Meno giovani arbitri, meno baby calciatori e un esercito crescente di fanta allenatori. Il calcio come lo abbiamo vissuto per anni non basta più: peggio, non piace. Soprattutto ai giovanissimi. Protagonista dei sogni di milioni di bambini è ancora il pallone, ma non quello che corre sul campo di calcio. L’emozione s’è trasferita altrove, tra smartphone e playstation: così i protagonisti diventano loro, i ragazzi. Gli stadi italiani si svuotano per motivi ormai noti: impianti vecchi, biglietti cari, Maradona e Van Basten appartengono al passato. Ma anche le iscrizioni alle scuole calcio segnano una flessione: intorno al 10 per cento annuale. È arrivata una generazione che vive il calcio in modo nuovo. Non ci gioca, lo usa.
«Se il bambino deve scegliere tra realtà e fantasia, preferisce la seconda perché così è più difficile ricevere una ferita narcisistica», spiega Aldo Grauso, psicologo dello sport con una lunga esperienza nel calcio giovanile. «Dal punto di vista evolutivo, i ragazzi tra 7 e 14 anni hanno più capacità di gestire la fantasia. E manifestano problemi con la gestione della sconfitta, spesso perché i primi a non accettarla sono i genitori. Non a caso è altissimo il cosiddetto “drop out”, l’abbandono precoce dell’attività». Una situazione che molte scuole calcio stanno compensando nei numeri con l’apertura alle bambine. Ma anche i corsi Aia per diventare arbitro, accessibili dal sedicesimo anno d’età, sono in calo netto.
Eppure c’è un calcio che aumenta fatturati e numeri di fedelissimi: è quello virtuale. Al cinema e in libreria domina il fantasy, con maghi e dragoni. Il prato verde stravince la gara dei videogame: Fifa, gioco di calcio per console prodotto dalla EaSports, è il più venduto in Italia (per distacco) e ha fatto segnare un aumento delle vendite negli ultimi 7 anni che sfiora il 300%. La stragrande maggioranza dei consumatori ha meno di 20 anni. I numeri diventano addirittura spaventosi se si parla di fantacalcio: una vecchia stima parlava di 2 milioni di giocatori in tutta Italia. Oggi, soltanto le piattaforme on-line ospitano oltre un milione di squadre, di cui 600mila circa amministrate dal brand ufficiale. Un gioco che consente ai fanta allenatori di costruire una squadra propria: un modo per vincere il campionato pure se la squadra del cuore retrocede, o avere il campione dei sogni, quello che il club per cui fai il tifo non comprerà mai. In Germania c’è persino chi come lo Schalke ha acquistato una squadra di e-soccer, giocato da giovanotti che sanno comandare calciatori virtuali: il club paga loro uno stipendio e gli ha dato le maglie. In giro per il mondo, capita già che migliaia di persone si riuniscano in stadi di e-soccer, in cui chi gioca non è Buffon, ma una sua proiezione virtuale.
Gli stadi reali invece, almeno in Italia, continuano a svuotarsi: nelle grandi squadre soltanto il 5% del totale dei biglietti viene acquistato da ragazzi sotto i 14 anni. Per riportare i giovanissimi allo stadio le società hanno iniziato a inventare formule alternative. Il Bologna ha raddoppiato le presenze dei ragazzini al Dall’Ara dedicandogli un settore: «È un successo che arriva grazie ai servizi che offriamo – spiega Christoph Winterling, direttore marketing del club rossoblù – abbiamo un angolo ai piedi del settore dove i calciatori si mettono a disposizione per salutare e firmare autografi, e in cui gli sponsor possono offrire i propri servizi. I giovani sono attratti perché si aggiunge all’esperienza della partita anche un’altra forma di intrattenimento».
Riportare i ragazzi nelle scuole calcio è anche più difficile. Marco Marchi, responsabile della Reset Academy della Lodigiani, da dove è uscito anche Totti, ci sta provando: «Bisogna selezionare i coach, non i ragazzi. Bisogna saper interagire con giovani che non riconoscono le autorità a casa, figurarsi in campo. C’è una carenza generica di cultura sportiva e chi promuove attività di avviamento deve essere attento alle esigenze dei bambini: non basta insegnare il passaggio o il tiro, ma assicurarsi che l’esercizio venga appreso dal ragazzo. L’obiettivo non può essere migliorare il gesto tecnico, ma migliorare i singoli bambini. E comunicare, spiegando cosa si sta facendo. Tanti allenatori però sono arroccati a difesa dei vecchi principi». Come sempre, basta trovare un’idea. È solo una questione di fantasia.