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 2016  settembre 01 Giovedì calendario

I 15 mila corpi gettati nelle fosse, in Siria e Iraq

La fossa più piccola contiene tre corpi, la voragine più grande ne ha inghiottiti migliaia. I miliziani dello Stato Islamico hanno lasciato dietro di loro una scia di orrore e terra rimossa, di buche scavate in fretta e ricoperte con noncuranza: le uccisioni no, quelle sono state meticolose e prolungate, come sulle pendici del monte Sinjar dove gli uomini del villaggio di Hardan sono stati massacrati durante sei giorni, gli estremisti si sono presi tutto il tempo che serviva, anche di notte, le luci delle ruspe a illuminare le esecuzioni.
L’Associated Press ha localizzato 72 fosse comuni tra l’Iraq e la Siria nelle aree sottratte al dominio del Califfato in ritirata o in quelle dove ancora si combatte e non possono essere raggiunte. Le vittime – calcola l’agenzia di stampa americana – sono tra le 5.200 e le 15 mila, una contabilità della morte che non si ferma: ieri 13 persone sono state ammazzate nella provincia di Kirkuk, erano accusate di aver aiutato alcune famiglie a fuggire dai possedimenti dei fondamentalisti.
Attorno a Sinjar, preso d’assalto nell’agosto del 2014, le fosse restano coperte dalla poca sabbia ributtata con le scavatrici, circondate dal nastro della polizia e dell’esercito, mancano i soldi o la volontà politica per raccogliere le prove che contengono. «Vorremmo recuperare i nostri cari o quel che è rimasto di loro: là dentro sono solo ossa – dice Rasho Qassim all’ Ap —. Le autorità ripetono che bisogna aspettare, deve arrivare un comitato per esumarli. Sono passati due anni e non è venuto nessuno». Due dei suoi figli sono seppelliti dall’altra parte della fettuccia di plastica colorata.
L’eccidio contro gli yazidi è stato annunciato e proclamato, gli ideologi dello Stato Islamico non nascondono le atrocità, le esaltano per la loro propaganda. La popolazione è considerata blasfema dagli estremisti islamici, è perseguitata da sempre, i massacri nei secoli sarebbero stati almeno 72. Sulla rivista «Dabiq» i predicatori del Califfato si chiedono come i musulmani possano ancora permettere a questi «adoratori del diavolo» di vivere in mezzo a loro. «Non provano neppure a cancellare le tracce dei crimini», commenta Sirwan Jalal, incaricato dal governo del Kurdistan iracheno di portare avanti l’indagine.
Nessuno al di fuori degli assassini ha potuto vedere il terreno, grande più o meno come due campi da calcio messi uno vicino all’altro, dove i prigionieri sono stati freddati e i loro cadaveri bruciati. Steve Wood dell’organizzazione AllSource ha cercato di incrociare le testimonianze dei pochi sopravvissuti con le immagini scattate dai satelliti. Ed è riuscito a individuare l’area dove gli sciiti, separati dagli altri musulmani, sono stati fatti inginocchiare con le mani legate: era il 10 giugno del 2014. «Io ero il numero 43 – racconta a Human Rights Watch un uomo che è riuscito a scampare la carneficina —, ho sentito qualcuno dire dietro di me “615”. E poi: “siete pronti?” Hanno cominciato a sparare con la mitragliatrice e tutto quello che avevano. Mi sono finto morto e sono rimasto tra i cadaveri fino a quando non se ne sono andati». Il lavoro di Wood e dei pochi altri che cercano di raccogliere le prove rischia di rimanere senza colpevoli, almeno fino a quando la Siria sarà devastata dal caos della guerra e l’Iraq con aree fuori dal controllo del governo di Bagdad. Che è riuscito a processare e condannare 36 estremisti per il massacro di Camp Speicher: sono stati impiccati il 21 agosto, avevano costretto 1.700 soldati iracheni a stendersi con la faccia per terra e li avevano falcidiati.
Secondo gli attivisti le fosse comuni in Siria sarebbero centinaia. Gli abitanti della provincia di Deir ez-Zor, a oriente verso il confine con l’Iraq, hanno individuato quella dove sono stati buttati 400 membri della tribù Shaitat, in totale le vittime del massacro sarebbero almeno un migliaio: quando lo Stato Islamico ha invaso le loro terre, hanno osato ribellarsi.