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 2016  settembre 01 Giovedì calendario

Gli Usa temono la stangata per gli altri big del web

Il giorno dopo la maxi-stangata fiscale da 13 miliardi inflitta dall’antitrust europeo, l’America si spacca sul caso Apple. C’è chi prende una posizione decisamente filo-europea come il New York Times, con un duro editoriale della direzione che si può riassumere così: ce la siamo cercata. C’è il Wall Street Journal che essendo il giornale di riferimento dell’establishment economico dà ampio spazio al “danno” subito non solo da Apple, ma anche dal fisco Usa: una volta tassati i profitti delle multinazionali in Europa, chi volesse recuperare gettito in America arriverà troppo tardi. C’è chi ridimensiona lo shock come Usa Today che ricorda come la stangata è pur sempre un modesto 6% del cash di Apple: “noccioline” è l’espressione ironica del quotidiano. E infine c’è chi comincia a fare scenari sul futuro: a chi tocca? Tra Google, Microsoft e Facebook, quale sarà il prossimo gigante americano a subire sanzioni fiscali in Europa?
Colpiscono le reazioni di molti politici Usa che accorrono in difesa di Apple. Talvolta sono gli stessi che parteciparono alle infuocate sessioni d’indagine del Senato di Washington, dove già nel 2013 denunciavano l’elusione fiscale e mettevano sotto torchio il chief executive Tim Cook. Opportunismo, o semplicemente il riflesso pavloviano che chiama a difendere un’impresa americana quando è un’autorità straniera a colpirne le malefatte? In prima fila nel denunciare il presunto “sopruso” europeo si distingue il senatore anziano di New York, il democratico Charles Schumer: che in caso di vittoria di Hillary Clinton a novembre potrebbe diventare il leader della maggioranza al Senato. Il New York Times non fa sconti a nessuno. Nel suo editoriale c’è una pesante requisitoria: contro la disonestà sostanziale di Apple (e tante altre multinazionali, europee incluse) e contro la connivenza dell’establishment politico americano. «Apple – si legge sul più importante quotidiano nazionale – per almeno un decennio si è impegnata in un’aggressiva elusione fiscale, ha accumulato 100 miliardi di dollari in Irlanda, ha evitato di pagare tasse in quasi tutti i paesi del mondo, come dimostrò l’indagine del Senato nel 2013. In una manifestazione di arroganza, ha creduto che i suoi accordi in un noto paradiso fiscale come l’Irlanda non sarebbero mai stati dichiarati illegali, anche se i regolatori europei avevano già cominciato a colpire in situazioni analoghe Starbucks, Amazon, Fca e Basf. Il Congresso da parte sua è rimasto a guardare mentre le imprese americane si dedicavano a complicate forme di elusione».
Anche tra gli osservatori meno filo-europei è l’inazione del Congresso americano a finire sul banco degli imputati. Visto che lo scandalo della maxi-elusione fiscale è all’ordine del giorno da almeno tre anni con grande visibilità, perché Washington si sveglia sotto shock dopo la decisione europea? Che cos’ha impedito al fisco americano di allungare le mani sul “tesoro offshore” di Apple? Tra le cause c’è la patologia del sistema politico, lo stallo tra democratici e repubblicani: nessun progetto di riforma fiscale sostenuto dall’Amministrazione Obama può passare al vaglio di un Congresso a maggioranza repubblicana, e viceversa. A questo si aggiunge l’altra malattia che è il lobbismo imperante: in questi anni le grandi aziende hanno manovrato per mantenere i loro privilegi fiscali; hanno avanzato più volte l’idea di un maxi- perdono fiscale come condizione preliminare per rimpatriare la montagna di profitti parcheggiati offshore. È ancora il New York Times a ricordare la pessima fine che fece un analogo perdono varato nel 2005: allora il Congresso a maggioranza democratica ridusse al 5% la tassa sui profitti. Rientrarono 300 miliardi, ma anziché servire a finanziare investimenti e a creare lavoro quei fondi finirono versati in dividendi agli azionisti e stock-option ai top manager.
La vicenda di Apple s’incrocia con una campagna elettorale in cui tutti i candidati hanno agitato il tema dei privilegi fiscali delle grandi imprese e hanno promesso di fare qualcosa. Visti i precedenti, quelle promesse sono state accolte con scetticismo. L’Unione europea dimostra che qualcosa si può fare, a condizione che ci sia la volontà politica. Spesso l’alibi per l’inazione è stato questo: chi tartassa le multinazionali le farà fuggire, e quelle andranno a investire altrove, creando un danno occupazionale ai paesi dove il fisco è più esoso. È un argomento che si morde la coda: vale solo finché a qualche Stato verrà consentito di fare il furbo (come fece l’Irlanda). In un recente vertice del G20, a Lima, le più grandi economie del mondo approvarono un importante documento dell’Ocse con le linee-guida di un’azione concertata a livello internazionale per chiudere gli spazi all’elusione fiscale. Questo week-end un altro G20 si terrà sotto presidenza cinese a Hangzhou. Ci sarà anche Barack Obama: è un’occasione per gli europei di chiedergli coerenza con gli impegni già presi.