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 2016  agosto 31 Mercoledì calendario

Il caso Apple non è solo una questione di soldi: sul piatto c’è la credibilità dell’Ue e quella dell’America

 Wall Street come a Londra, la reazione dei mercati finanziari al caso-Apple è stata quanto meno emblematica: invece di mettere in fuga gli investitori e far crollare il titolo del colosso della Silicon Valley, la “mazzata” fiscale da 13 miliardi di euro annunciata dalla Commissione non ha lasciato alcun segno sul valore del gruppo e sulla fiducia degli investitori.
Per un colosso con 570 miliardi di dollari di capitalizzazione, una caduta dello 0,98% è a dir poco irrilevante. Come irrilevante è anche l’impatto potenziale della stessa sanzione richiesta dall’antitrust: anche se nel peggiore degli scenari la Corte di Giustizia Ue dovesse confermare che la multinazionale americana deve restituire a Dublino 13 miliardi di euro di aiuti di Stato indebitamente ricevuti, si tratterebbe poco più di un “buffetto” per un gruppo che ha in cassa oltre 232 miliardi di dollari in contanti, di cui circa 214 miliardi custoditi all’estero.
E in ogni caso, i tempi saranno lunghi: dopo sei anni di inchiesta, se ne profilano almeno altri 5 di battaglie legali. Ma a sgonfiare il caso-Apple non è solo l’entità della multa o il merito.
Il vero problema è che i mercati hanno perso la fiducia sulla capacità delle vecchie e delle nuove potenze economiche di dare risposte comuni, serie e creative a problemi all’apparenza locali ma sostanzialmente globali: si convocano vertici mondiali, riunioni multilaterali sotto l’ombrello del G20 o dell’Ocse, ma alla fine sono ancora i rapporti di forza a vincere sul campo. Lo si è visto nella gestione delle crisi finanziarie e nelle tensioni di carattere politico e geopolitico, nel caos delle valute e in quello del commercio: si annunciano grandi intese e politiche di sviluppo, alleanze finanziarie e persino fiscali, ma nei fatti è poi l’assenza di una leadership credibile (da un parte e dall’altra dell’Oceano) a bloccare ogni tentativo di gestire le distorsioni e le asimmetrie generate dalla globalizzazione senza regole. Dietro la grande incertezza che pesa sui mercati finanziari e sugli investimenti produttivi non c’è solo Brexit, la Russia o la modernizzazione a singhiozzo della Cina: c’è soprattutto la mancanza di fiducia tra Paesi e l’assenza di una cabina di regia nella risposta alle grandi sfide sociali ed economiche. Il caso della Apple è esploso tra l’altro proprio in coincidenza di tensioni anche più critiche e importanti, come lo stallo nei negoziati commerciali tra Usa e Ue. Se il trattato Ttip rischia di saltare, non è solo perché l’America abusa del proprio ruolo e della sua forza politica, ma soprattutto per le divisioni tra i Paesi europei e sul tentativo tedesco e francese di far prevalere i propri interessi su quelli dell’Unione. I mercati, come è chiaro, sono ormai pronti a chiamare il bluff sulle finte manovre coordinate, sui tentatividi degli Usa (e della Ue) di convincere l’opinione pubblica che nella battaglia contro l’evasione non ci sonozone franche: sul fisco, la vigilanza comune è nell’interesse di tutti. O forse di nessuno.
Sul caso-Apple e sulle sue implicazioni, in altre parole, la posta in gioco non è più la multa: sul piatto c’è la credibilità dell’Unione europea, colpevole di aver permesso non solo all’Irlanda, ma anche all’Olanda e al Lussemburgo, di diventare dei veri paradisi fiscali nel cuore dell’Eurozona, sottraendo spesso in modo opaco o anche illegale capitali, imprese e risorse a tutti quei Paesi (come l’Italia) che per fragilità di bilancio hanno tasse più alte della media. Ma è in gioco anche la credibilità dell’America. Il Tesoro americano è arrivato persino a minacciare Bruxelles di ritorsioni commerciali se la multa di 13 miliardi sarà confermata. Il motivo non è di certo la difesa della Apple e dei suoi azionisti: Washington vuole solo evitare che in caso di condanna la Apple chieda al fisco Usa la deduzione dei 13 miliardi dal proprio imponibile. Ma la posizione più grottesca è quella dell’Irlanda: pur di non compromettere i rapporti con le multinazionali e con Wall Street, Dublino è pronta a rinunciare a ben 13 miliardi che rafforzerebbero notevolmente le finanze di un Paese già salvato con i fondi dei partner europei e nuovamente in difficoltà sul fronte bancario. Un assurdo che l’Europa non può permettersi.
In questo vortice confuso, vengono persino travolte tutte le più importanti organizzazioni internazionali, dal G20 al Fondo monetario internazionale fino all’Ocse. Solo nel gennaio scorso, infatti, era stato proprio l’Ocse ad annunciare la firma da parte di 31 Paesi di un accordo sulla vigilanza fiscale di «portata storica»: l’impegno riguardava lo scambio di informazioni sui profitti delle multinazionali e sulle tasse pagate in ogni Paese. Le aspettative hanno avuto vita breve: non solo l’Europa continua a muoversi in ordine sparso e l’America gioca per sé, ma nessun segnale di collaborazione è ancora emerso a livello mondiale. Eppure, era stato proprio l’Ocse su pressioni di Washington a rivelare che oltre 240 miliardi di dollari di profitti delle multinazionali sfuggono al fisco dei Paesi in cui vengono generati. Ora il caso-Apple sembra avviato verso la giustizia comunitaria, ma l’esito è quanto meno incerto:la materia è non solo giuridicamente complessa, ma sicuramente esposta al rischio di condizionamenti e pressioni che hanno più a che fare con la tutela delle relazioni politiche transatlantiche e dei grandi interessi nazionali piuttosto che con la certezza del diritto e la tutela del mercato e della concorrenza. Nell’interesse di tutti, le ambiguità e i compromessi non sono più ammessi. Per gli Usa quanto per l’Europa.