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 2016  agosto 31 Mercoledì calendario

Intervista a Sonia Bergamasco, madrina del festival di Venezia

Il mare, il sole a picco, la folla di telecamere e microfoni, i rumori di sega e di martello che accompagnano gli ultimi preparativi per l’inaugurazione. 
Un’altra avrebbe preteso ombra, silenzio, aria condizionata. Non lei, Sonia Bergamasco, milanese, diplomata in pianoforte al Conservatorio Giuseppe Verdi prima di spiccare il volo che l’ha portata in palcoscenico, dal debutto con Giorgio Strehler nell’Arlecchino servitore di due padroni fino alle ultime prove da regista, passando per la tv dei grandi numeri, da La meglio gioventù al Commissario Montalbano. E naturalmente per il cinema, dove ha esordito nel 2001 nell’Amore probabilmente di Giuseppe Bertolucci. 
Diva mai, attrice sempre, Bergamasco si sottopone quieta ai doveri di madrina della Mostra, scosta i rami di una pianta invadente, mormora, con un sorriso, che stasera indosserà un abito Armani, e parla del suo anno straordinario, aperto al fianco del fenomeno Zalone e in attesa di esser chiuso con un’altra regia teatrale, del testo, tratto da Balzac, di Stefano Massini, con Isabella Ragonese e Federica Fracassi protagoniste.
Quella di stasera, segnata dal lutto e dal dolore per i danni del terremoto, non sarà un’inaugurazione facile. Come affronterà la prova?
«Con emozione, gioia, senso di responsabilità. Ma anche con parole semplici e personali, senza aggravare gli spettatori che sono qui per vedere cinema, ma che come tutti noi hanno vissuto le tragedie questi giorni. Ho scritto io stessa il testo di stasera, ripensando a quello che è successo e sperando di trovare i termini adeguati per rivolgere un pensiero a chi soffre. Nella linea della Biennale che, a parole importanti, ha fatto seguire gesti concreti di solidarietà».
Che ricordi ha della Mostra di Venezia?
«Uno soprattutto, quando vidi alle 8,30 di mattina, seduta in prima fila in Sala Grande, Natural Born Killers... Indimenticabile. Ho preso parte a tante edizioni, mi ha sempre colpito il pubblico, che è molto vivo, estremamente appassionato, e anche partigiano».
Questo è stato il suo anno speciale. Come l’ha vissuto?
«Arriva un’età in cui le cose si godono serenamente. Ho sempre amato questo lavoro, ancor prima di iniziare a farlo sul serio, sapendo già che avrebbe comportato difficoltà, pensieri, pause, frustrazioni. Non ho mai avuto l’assillo del successo, anche se, certo, tutti vogliamo essere amati. Questo è un mestiere che dà tanta energia e sono molto grata a quelli che vedono passi avanti nel mio percorso personale».
In «Quo vado?» è stata un’insopportabile dottoressa Sironi.
«Ho difeso il personaggio con le unghie e con i denti, ho visto la Sironi come una che ha sofferto le pene dell’inferno, e sono stata dalla sua parte».
Come si fronteggia il tornado Zalone?
«La comicità è un’arte sottile, non ci sono regole, ho capito che era necessario entrare nei ritmi e nei tempi del protagonista. È stato bello, ma non facile».
Ripeterebbe l’esperienza?
«Sì, se la storia avesse i dati per funzionare, lo rifarei. Leggendo la sceneggiatura di Quo vado? avevo subito immaginato che la coppia comica era azzeccata».
Cinema e teatro. Preferenze, differenze?
«Lavorando nell’uno e nell’altro ambiente, continuo a interrogarmi. Da una parte il teatro, con i suoi tempi lunghi e con il pubblico che respira con te. Dall’altra il cinema, che vive sempre nel presente, cogliendo gli attimi. Per quanto mi riguarda, alla fine non voglio scegliere, e neppure fare mai l’uno senza l’altro. Sono ambedue luoghi dalle grandi possibilità espressive, però il teatro è la mia casa».