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 2016  agosto 31 Mercoledì calendario

Roma 60, la prima volta delle paralimpiadi

Le facce ruvide, gli occhi felici, le sigarette in bocca, le tute pesanti con la scritta Inail. Roma, Acqua Acetosa, 18 settembre 1960. Cinquemila spettatori, la first lady anche se non si diceva così, signora Carla Gronchi. Erano le prime Paralimpiadi, anche se questo nome gli fu dato solo nel 1984. Fu l’inizio di tutto, di certo. Due settimane dopo i Giochi, ecco la sfilata di 400 carrozzine da 21 paesi, l’Italia con una pattuglia di ragazzi e ragazze da Ostia. Quelli del Centro paraplegici Villa Marina dell’Inail, inventato tre anni prima per 38 pazienti e 100 posti letto dal neuropsichiatra Antonio Maglio che si era ispirato all’esempio del neurochirurgo Ludwig Guttmann che a Stoke Mandeville, vicino Londra, aveva messo su nel ‘48 un progetto di recupero dei reduci della guerra coinvolgendoli nello sport agonistico.
Gli italiani copiarono la modernità, diventando pionieri: ex meccanici, muratori, zappatori di tutto il paese finiti in carrozzella per incidenti sul lavoro, divennero campioni: 80 medaglie a Roma, più di qualsiasi altra nazione in gara. La grande storia e le piccole storie delle origini dello sport per diversamente abili è raccontato nel documentario “E poi vincemmo l’oro”, realizzato da Redattore Sociale per conto del Comitato italiano paralimpico con la collaborazione di Inail e Fondazione italiana paralimpica. Un’iniziativa che fa parte di un progetto più ampio intitolato “Memoria Paralimpica” che è poi un viaggio da Roma a Rio: archivio multimediale online e una mostra fotografica di oltre 900 immagini da archivi dimenticati e album di famiglia.
Una famiglia importante, ormai. Gli atleti del Comitato italiano paralimpico occupano l’undicesimo posto nel ranking mondiale, 58mila i tesserati in Italia (46% al nord, 28% al centro e 26% al sud), il Cip diventato da un anno ente autonomo di diritto pubblico, scorporato ma alla pari del Coni. «Ne è passato di tempo ed è stato un tempo bellissimo» racconta pimpante Aroldo Ruschioni, 84 anni, uno dei ragazzi di Roma ‘60: oro nel tennistavolo doppio, un argento nella sciabola a squadre, un bronzo nel nuoto (dorso). «Ho partecipato a quattro Olimpiadi in tutto, dop o Roma feci Tokyo, poi Tel Aviv dove ci mandarono perché in Messico l’altura ci faceva male, dicevano, e infine a Heidelberg per quelle di Monaco. Eravamo giovani e pieni di speranze. Io sono di Macerata, è lì che ho avuto l’incidente nell’officina elettromeccanica di mio padre: caddi in un pozzo mentre montavamo le pompe per tirare fuori l’acqua. Frattura di una vertebra, lesione del midollo spinale. Sono rimasto sulla sedia che ero un ragazzo, andai ad Ostia nel centro per mielolesi di Maglio. Non ci interessava la pietà, ma vivere. Eravamo amici, allenamenti insieme poi la sera a cena fuori. Lo sport mi ha fatto conoscere il mondo e aprire la testa, viaggiavamo, prendevo l’aereo che non avevo mai preso. A metà degli anni ‘70 ho girato per tutto il Brasile ospite delle squadre di calcio, dei campioni ammiravo Bekele, ero e sono appassionato di basket americano, pure in carrozzella gli atleti neri sono enormi. Abbiamo abbattuto barriere fisiche e mentali. Anche in Italia, certo non voglio perdere il mio tempo a discutere dell’inciviltà di chi parcheggia nel posto disabili, penso piuttosto alle possibilità che ci sono ancora di divertirsi e imparare. Sono stato sposato con Ottavia, infermiera a Ostia, poi lei se n’è andata ma la vita deve andare avanti. Abbiamo le forze, tutto merito dello sport. Io non la cambio con nessuno la vita mia».