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 2016  agosto 31 Mercoledì calendario

Per ogni IPhone venduto la Apple paga circa un centesimo e mezzo di tasse all’Irlanda. La Repubblica fa i conti in tasca alla Mela

Entriamo in un Apple Store. L’iPhone 6s Plus, gioiello di design e tecnologia, costa 889 euro. Tolte spese di produzione e Iva, nei forzieri di Apple ne finiscono più o meno 320. Quello che la Mela paga in tasse, cortesia del governo irlandese, è un centesimo e mezzo. Perché le imposte sul reddito generato dalle vendite italiane, Apple non le versa a Roma. I profitti, come quelli di tutta Europa, vengono trasferiti in Irlanda, o attraverso delle tecniche di “transfer pricing” oppure, come scrive la Commissione nel suo rapporto, fatturandoli «direttamente nel Paese». Accade per esempio con le canzoni o le app che compriamo sullo Store digitale. Una volta in Irlanda la somma viene abbattuta, scalando gli investimenti in ricerca e sviluppo riconosciuti ad Apple Usa. E poi, ancora trasferita a un fantomatico “head office”, uno strano ufficio senza dipendenti né sede geografica. Quindi senza tasse. Morale: qui in Italia, dato 2014, Apple ha realizzato entrate sopra il miliardo, versando al Fisco 4,2 milioni. E in Irlanda, dove quei profitti sono stati dirottati, ha pagato lo 0,005%.
E se il governo di Dublino quelle imposte non le vuole, farà ricorso contro la decisione di Bruxelles, alla causa dei nostri conti pubblici recuperare parte dell’”ottimizzazione fiscale” di Apple tornerebbe utile. Così come di quella targata Google, che fattura gli incassi per la pubblicità online in Irlanda, Amazon, che li mette a bilancio in Lussemburgo, e poi Twitter, Facebook o eBay. Tutti insieme, il dato è sempre del 2014, hanno versato al Fisco italiano la miseria di nove milioni di euro. A fronte di un mercato e-commerce, di cui sono gli egemoni, che vale 11 miliardi. «Tassando i redditi di impresa in Italia», dice Stefano Quintarelli, Scelta civica, primo firmatario di una proposta di legge per stanare i giganti della Rete, «si potrebbe recuperare una cifra compresa tra 2 e 3 miliardi». Mentre Francesco Boccia del Pd, presidente della commissione Bilancio del Senato, che una web tax l’aveva proposta nel 2013, parla di una base imponibile erosa da 30 miliardi di euro: «A regime se il Fisco ne incasserebbe tra i cinque e i sei».
Il principio è chiaro: far pagare le tasse dove il reddito viene generato. Non facile però, per società che operano nell’universo immateriale del web. La proposta Quintarelli, sostenuta anche dal viceministro Enrico Zanetti, prevede di agire alla fonte, utilizzando come sostituti di imposta gli intermediari di pagamento che trasferiscono le somme dei clienti ai vari Google e Apple. Adattando ai loro affari virtuali il concetto di “stabile organizzazione” nel Paese. Il segno della presenza sul nostro territorio, il grimaldello con cui l’Agenzia delle Entrate ha chiuso l’accordo fiscali con Apple da 318 milioni di euro e la Guardia di Finanza contestato a Google centinaia di milioni di imposte non pagate.
Fonti di Palazzo Chigi però negano che il dossier sia nel cantiere della legge di Bilancio. Era stato proprio Renzi, appena arrivato al governo, a stoppare la web tassa di Boccia. Per poi annunciare un anno fa che, se l’Euopa non si fosse mossa in questo senso, «la digital tax sarebbe stata legge in Italia entro il gennaio del 2017». Ora pare uscita di nuovo dal tavolo, anche per le perplessità dei tecnici del Mef, secondo cui sarebbe meglio aspettare un intervento coordinato a livello europeo.
Il Beps, il comitato speciale creato in seno all’Ocse per limitare le pratiche di erosione fiscale delle multinazionali, ha pubblicato le sue proposte lo scorso ottobre. Ora però spetta alla Ue e ai singoli Paesi adottarle. «Il problema è che le norme fiscali richiedono l’unanimità a livello comunitario, il processo avanza molto lento», dice Marco Greggi, docente di Diritto tributario internazionale all’Università di Ferrara. Lo stesso Antitrust Ue, nel suo rapporto su Apple, apre alla possibilità che i profitti della società vengano tassati dai singoli Paesi, riducendo così la quota dovuta all’Irlanda. «Si tratta di una conferma indiretta che i governi possono agire in autonomia», dice il viceministro Zanetti. Almeno per ora, non sarà il caso dell’Italia.