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 2016  agosto 31 Mercoledì calendario

«È la mano dell’uomo che uccide, non prendetevela con Dio». Ai funerali di Amatrice celebrati da Monsignor Pompili

Con queste preghiere nel fango, con queste parole di pioggia che sgocciolavano su ventotto bare, finisce il conforto del rumore e piomba su Amatrice la paura del silenzio. Nella spossante similitudine di tutte queste catastrofi, nel rito sempre identico in tutto il mondo del dolore pubblico che s’impadronisce del dolore privato nell’illusione di lenirlo e di sentirsi meno in colpa, Amatrice è stata per una sera il paese dei morti che hanno dovuto confortare i vivi. Senza un grido, senza scene di strazio, in una compostezza che smentisce i luoghi comuni dell’italianità melodrammatica.
Per ciascuna di quelle poche casse strette sotto il tendone eretto in fretta dalla Protezione Civile in allarme per il temporale, davanti alle rovine dell’istituto di don Minozzi come altar maggiore alle spalle dei celebranti, si erano raccolti più di cinquemila magnifici soccorritori, mai tanti vivi per così poche salme. Altissimi Granatieri di Sardegna per portare a spalla le due piccole bare bianche dei bambini, boy scout, cinquecento giornalisti e video operatori anche stranieri, cinquanta religiosi in paramenti viola – due per ogni defunto – per la celebrazione del rito funebre celebrato dal vescovo di Rieti, monsignor Pompili, formavano un’armada di vivi ciascuno nelle uniformi del proprio ruolo.
Tutti noi siamo convenuti qui, come le autorità, le grisaglie, i completi blu piovuti dagli elicotteri, Mattarella, Renzi, Grasso, Boldrini ma non Di Maio e la sindaca di Roma Raggi arrivati diversamente in automobile, in un paese che non c’è più per farci perdonare da chi non può più farlo. E che di mattina, in lunghe file per la Strada Regionale 577, la sola piccola strada contorta che ancora colleghi Amatrice con il resto del mondo, hanno cominciato la processione alla rovescia. L’invasione della commozione e della solidarietà sempre a rischio di diventare la ritirata della dimenticanza. Se l’immensa mobilitazione di sentimenti, di mezzi, di promesse e di uomini che si sono arrampicati fino a questo paese del Centro Italia celebre fino a ieri per il piacere di un sugo della pasta ed esploso nella tragedia dalle 3 e 36 di mercoledì sulle pagine e sui teleschermi di tutto il mondo si traducesse in opere, Amatrice potrebbe essere ricostruita com’era, e ben più solida, alle 3 e 35 di quella notte, in poche settimane. E se lo Stato, il governo, il potere politico ed economico, lo volessero, potrebbe essere un perfetto laboratorio di come si può resuscitare una piccola comunità devastata.
È obbligatorio sperare, ma non necessariamente credere, perché la Fede era riservata a chi, seduto nelle file di sedie per i parenti dei morti interpuntate fra le poche casse di mogano raccolte fra le quasi 300 nelle Marche e nel Lazio per il funerale di Stato, ascoltava la meravigliosa promessa di resurrezione del rito cattolico, non a chi di noi ha visto troppe omelie vuote di governanti sulle rovine di New Orleans, di Città del Messico, di Fukushima, di Baton Rouge, dell’Aquila per non essere scettico fino a prova contraria. È sicuramente sincero il Matteo Renzi che al suo arrivo abbraccia una signora giurandole ancora una volta che “non vi lasceremo soli”, perché su questa promessa si fonda la sua dignità, prima che il suo futuro politico. Era commossa davvero Virginia Raggi, che piangeva dopo avere ascoltato una ragazza gridarle: «Forza Virginia, crediamo in te, Amatrice è vicina a Roma». Ma la sincerità di un giorno non sempre è la realizzazione concreta del giorno dopo. Per ora, per questa serata gonfia di pioggia che non risparmiava neppure i sacerdoti che portavano il calice delle ostie consacrate preceduti da scout con bandierine bianche senza trovare nessuno che si comunicasse nel recinto dei giornalisti, ci si deve accontentare. Ci si consola con la tenerezza dei parenti dei bambini uccisi, la cura affettuosa con la quale è stata posata la bara di Ivan Veralu, il bambino romeno di tre anni, l’attenta festosità dei cagnolini ritrovati vivi come Sky, tornati nelle loro famiglie, con quei brandelli di vita che rendono sopportabili i funerali.
In una comunità sbriciolata in immagini di sciagura che mi assalgono da ogni angolo, la compostezza della cerimonia è stata una rappresentazione di ordine, un’illusione di normalità, anche per chi non ha il privi- legio di credere alla «certezza della vita eterna» con la quale il vescovo ha chiuso la messa, dopo l’invito ad andare in pace. La normalità è solo una promessa, per ora, ripetuta in abbracci dopo abbracci da Mattarella e da Renzi, che ha apprezzabilmente rifiutato di parlare ai giornalisti, lontana da una realtà incerta nella quale l’unico impresario di pompe funebri ha ancora cinque bare con le salme nel proprio garage, il Ciaralli, in attesa dei funerali privati che il parroco don Savino celebrerà questa mattina, per famiglie che non hanno voluto unirsi alla funzione pubblica. È lontanissima dall’esperienza di coloro che hanno dovuto andare all’obitorio improvvisato, opprimente e refrigerato soltanto da “pinguini” portatili impotenti di fronte all’incalzare delle ore, a riconoscere i propri cari a volte soltanto attraverso tatuaggi, assistiti dai volontari degli “psicologi per i popoli”, disumani nella loro missione umana.
Niente è mai nuovo, in queste pagine di tragedia che la storia umana scrive, promettendo a se stessa di non scriverne mai più, sapendo che si ripeteranno, perché non Dio (che «non può essere utilizzato come un capro espiatorio»), ma è l’uomo che uccide, anzi le «sue opere», come ha detto il vescovo. Niente è inedito, nell’album delle catastrofi che lasciano ovunque lo stesso sentimento contraddittorio di inevitabilità e di colpa, dove la doverosa ricerca tecnica e giudiziaria delle responsabilità, se esistono, risponde almeno alla domanda che si legge sempre negli occhi dei superstiti: perché? Sapere che quel bambino romeno, quella famiglia del fornaio del paese sono stati uccisi dalla disonestà, dalla incompetenza, dalla incuria di qualcuno non restituisce i morti, ma toglie il sospetto di un’inspiegabile e mirata crudeltà divina.
Naturalmente aveva smesso di piovere e di tuonare alle 7 di sera, quando la cerimonia è finita, nella propria encomiabile stringatezza e il cielo di Amatrice si è riempito del pulsare delle pale degli elicotteri, segnale di un’apocalisse finita. Soltanto un paio di palloncini bianchi erano rimasti contro le volte del tendone, sfuggite alle mani di bambini che piangevano, giustamente più addolorati dal palloncino volato via che dal mistero a loro incomprensibile della morte. Nel campo della Protezione civile, il campo dei vivi organizzato accanto al tendone dei morti, tornavano a mescere caffè e a distribuire insalate di tonno e fagioli, instancabili, nel prato zuppo di temporale. Il Cristo volante, un crocefisso di legno preso dalla chiesa di un paese vicino, Bugnaco, sistemato sopra l’altare, senza croce e appeso per le mani alle funi quasi un Cristo ginnasta agli anelli, poteva riposare e tornare a terra, verso il suo altare. Al Cimitero ho visto scavare le fosse, fino a sera nella terra fangosa, per accogliere i protagonisti dell’addio, che i soldati portavano via dal tendone ormai vuoto, presagio della loro definitiva solitudine, mentre i vivi tornavano in quello che resta del loro paese. Sognando tutti, noi che possiamo ancora farlo, noi che ne abbiamo viste già troppe, che anche questa di Amatrice non sia stata soltanto un’altra inutile strage.