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 2016  agosto 30 Martedì calendario

In morte di Tommaso Labranca

Stefano Bartezzaghi per la Repubblica
Trash, cialtronismi, isolazionismi, Orietta Berti e Michael Jackson, Andy Warhol e Floradora, il pupazzo canino di Paolo Limiti. Lui scomparso (improvvisamente e a poco più di cinquant’anni), nessuno più saprà guizzare tra le onde mosse della cultura di massa con l’agilità e la sapienza di Tommaso Labranca. Era nato nel 1962, viveva nell’hinterland milanese di Pantigliate, si guadagnava da vivere traducendo manuali tecnici da una delle molte lingue da lui conosciute, esprimeva la sua inarrivabile competenza sulle idiozie e le meraviglie dei mass-media in un italiano ricco e inventivo. Di sé diceva che tutto era cominciato quando da ragazzo riuniva amici altrettanto eccentrici nel bar del mezzanino della fermata Cordusio della metro di Milano: se proprio tocca vedersi in centro, sia almeno sotto. Già allora inventava riviste, correnti artistiche, mode, denominazioni. I saggi di Andy Warhol era un coatto (1994) lo rivelarono come il teorico del trash, che definiva nei termini ineccepibili dell’«emulazione fallita». Vennero poi l’Estasi del pecoreccio (1995, sottotitolo: «Perché non possiamo non dirci brianzoli») e Chaltron Escon (1998), a comporre la sua trilogia della critica del gusto. Nel frattempo Fabio Fazio lo aveva imbarcato come autore e consulente nell’equipaggio del programma Anima mia, in cui Labranca svolgeva all’incirca il ruolo che il giovane D’Agostino aveva avuto in Quelli della notte. Seguirono altre esperienze in tv, alla radio e diverse collaborazioni, che lo lasciavano invariabilmente scontento. In un’epoca che ha fatto del risentimento la passione più diffusa, Labranca si era risentito prima e più di tutti. Ma sapeva essere anche il più divertente e produttivo dei risentiti.
Ce l’aveva con i ricchi, specie se di sinistra, con i teorici fumosi, con i privilegiati problematici in genere e con chi si rifiutava di accettare un suo invito a Pantigliate. Il piccolo isolazionista (2004) non è stato solo il titolo di uno dei suoi libri migliori, era anche un’aspirazione: fare a meno di tutti. Labranca amava, davvero e quasi esclusivamente, inventare da zero le condizioni per esprimersi: siti internet, fanzine, cerimonie, cori, blog, collane, riviste illustrate, intere case editrici.
Sul numero settembrino di Linus (oggi diretto da un altro reduce di Anima mia, Pietro Galeotti) uscirà uno dei suoi ultimi scritti, forse il suo ultimo tentativo di venire a patti con l’editoria e la scena pubblica. Lo leggeremo, ci sarà come sempre da ridere, da imparare, da sospirare. Da sospirare, anche troppo, questa volta.

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Francesco Rigatelli per La Stampa
È morto ieri a 54 anni nella sua casa di Pantigliate, a Est di Milano, lo scrittore Tommaso Labranca. Il suo primo libro, Andy Warhol era un coatto (Castelvecchi), nel 1994 aveva spalancato le porte alla contaminazione di alto e basso: «Intenzione meno risultato ottenuto uguale trash», teorizzava. Altro piccolo capolavoro sui generis nel 1995: Estasi del pecoreccio. Perché non possiamo non dirci brianzoli (Castelvecchi).
Da questi libri e dallo spirito del tempo nacque la corrente dei «cannibali»: Niccolò Ammaniti, Enrico Brizzi, Giuseppe Caliceti, Matteo Galiazzo, Aldo Nove, Isabella Santacroce, Tiziano Scarpa e Alda Teodorani. L’antologia Einaudi Gioventù cannibale del 1996 non includeva Labranca, ma lo seguiva. Nel 1997 è stato anche tra gli autori del programma di Rai 2 Anima mia, sulla cultura di massa degli Anni di piombo, condotto da Fabio Fazio e Claudio Baglioni.
Critico e traduttore, per ultimo della biografia dell’attore Steve Martin, ha scritto altri libri, tra cui Neoproletariato (Castelvecchi) in cui ha coniato il termine «eleghanzia», l’intellighenzia del mondo della moda, e Vraghinaròda (Editoria e Comunicazione), in russo i «nemici del popolo» (e del pop), contro chi infesta l’arte con tanto fumo e niente arrosto.

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Ranieri Polese per il Corriere della Sera
Da tempo Tommaso Labranca si era stancato di fare il precorritore, quello che individua con anticipo gusti mode tendenze. E lui non solo li scopriva ma sapeva anche analizzarli e interpretarli. Si era stancato pure dell’Italia e della sua povera industria culturale che dei tipi come lui per un po’ se ne serve, poi li butta via, magari rubando loro idee, scoperte, categorie e contrabbandandole come proprie. Nel dare l’addio a Labranca non c’è solo la grande malinconia per la perdita di un amico e di una grande mente, c’è pure, soprattutto, la triste constatazione di come nei suoi confronti sia stata praticata una lunga, tenace, ottusa incomprensione.
Secondo un canovaccio già collaudato per un altro grande irregolare, un fratello maggiore, uno zio bizzarro come fu Oreste del Buono, quello che ci fece scoprire i gialli di Hammett e Chandler, i fumetti americani, la pubblicità, il linguaggio della tv, e che oggi, mentre si pubblicano saggi su «Linus» e sui messaggi subliminali degli spot, nessuno sente il dovere di ricordare. Lui, Tommaso Labranca, si era ritirato a lavorare in Svizzera, dirigeva una rivista, «Tipographia Helvetica», di cui — lo ha scritto nel suo commosso ricordo su «Nazione Indiana» Gianni Biondillo — i nostri impareggiabili blogger che sanno tutto non conoscevano nemmeno l’esistenza.
Nato 54 anni fa a Milano, raccontava di aver avuto la sua prima illuminazione estetica nel 1970 guardando Un disco per l’estate, vinto da Lady Barbara: «Avevo otto anni, e il vestito di velluto verde stile Oscar Wilde di Renato dei Profeti mi sembrò bellissimo. Anni dopo lo cercai, ma ormai non era più di moda». E così già intuiva la dura legge del revival: «Dieci anni è noia, venti è moda, trenta è storia». Agli anni Settanta e al loro pazzesco mix di politica e moda, di musica e rivoluzione, di pessimo gusto e coraggiose innovazioni, Labranca sarebbe sempre ritornato, nei suoi libri (il romanzo 78.08, Excelsior 2008, racconta la storia dello sfigato Antonio Maniero dell’hinterland milanese, quasi omonimo del Tony Manero-John Travolta della Febbre del sabato sera) e nei programmi tv (Anima mia, 1997, con Fabio Fazio e Claudio Baglioni). Lì, in quel decennio popolato da Cugini di campagna e Renato Zero, lui vedeva la realizzazione perfetta della categoria estetica del trash. Ovvero — cito — del «risultato imperfetto dell’emulazione di un modello, un’imitazione che a un certo punto fallisce e in questo scarto crea il trash». Senza connotazioni negative né positive («una categoria estetica come il barocco» diceva), il trash era l’ultima grande manifestazione della creatività italiana. Dopo sarebbe venuta solo la noia della ripetizione, le repliche infinite e squallide di quel fenomeno.
A questi risultati teorici Labranca aveva dedicato due libri, Andy Warhol era un coatto. Vivere e capire il trash e L’estasi del pecoreccio. Perché non possiamo non dirci brianzoli, pubblicati entrambi da Castelvecchi. Occhio alle date, 1994 e 1995, ben prima cioè della famosa antologia Gioventù cannibale, Einaudi Stile libero 1996, il libro più citato rievocato festeggiato degli anni Novanta, considerato lo spartiacque tra il nazional-popolare e il postmoderno. A cui, lui, Labranca non partecipa (c’erano Nove, Ammaniti, Luttazzi, lui no). Certo, per la ditta Cesari & Repetti di Stile libero Labranca scrive un grande saggio, Chaltron Hescon, ’98, ma subito emigra verso altri editori e altre esperienze. Come le biografie di cantanti pop, e il capolavoro è La vita secondo Orietta, Sperling & Kupfer, dedicata a «tutti quei giornalisti tanto incolti quanto presuntuosi che, sorridendo maligni e schifati di Orietta Berti, si sono potuti sentire almeno una volta “intelligenti”».
Nemico del populismo e degli intellettuali snob che lo criticano (chissà cosa avrebbe potuto scrivere su Capalbio che rifiuta i rifugiati), Labranca osservava ormai da lontano le strane ibridazioni tra antichi retaggi e nuovissimi mezzi di comunicazione. Odiava i social network, corrispondeva solo con pochi intimi amici, aveva scelto l’esilio. Isolato, mentre i giovani degli anni Ottanta vincevano premi Strega e sfornavano volumi per i maggiori marchi editoriali, Labranca se ne è andato in silenzio. Incompreso fino all’ultimo ma forse contento di provare che in Italia a essere intelligenti non c’è gusto.

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Francesco Specchia per Libero
L’immagine più illuminata di Tommaso Labranca - e la meno aderente al suo outfit ordinario, fatto di girocollo blasé e borselli anni ’80 – è una che troneggiava su Wikipedia: cravatta nera elegantissima e occhiali pesanti in contrasto con la levità di pensiero. Una citazione vivente di Truman Capote.
Anzi, a pensarci bene, Labranca, morto ieri a 54 anni, avvolgendo il mondo della letteratura, questo giornale e chi scrive in un lutto spiazzante e doloroso, è stato davvero il Truman Capote italiano. Stessa educazione e gentilezza ai limiti dell’imbarazzo. Stessa spietatezza intellettuale. Stessa tendenza a mescolare l’alto col basso, Proust con Michael Jackson, la critica musicale con la cronaca giornalistica. Stessa, mostruosa, capacità di scrittura che lo rendeva in grado di annusare i movimenti di popolo sotto la pelle del mondo e di danzare, con le parole, dai saggi di antropologia culturale, che snudavano il pop (Andy Warhol era un coatto, Estasi del pecoreccio, Chaltron Hescon su tutti) e inventavano il trash, ai reportage tra il museo di Brera e le feste della salsiccia alla periferia di Quarto Oggiaro; dalle performance artistiche e dai movimenti filosofico- letterari come il Nevroromanticismo e i Cannibali (che lui contribuì a ideare nel 1997 assieme ad Aldo Nove, Isabella Santacroce e Nicolò Ammaniti) agli show goliardici improvvisati tipo Ansi Sæmur, il progetto musicale filo-islandese del 2008, in cui Tommaso si esibiva per pochi intimi vestito di lana per richiamare finte origini islandesi, leggendo, suonando uno xilofono ed emettendo vocalizzi.
Tommaso Labranca era un irrequieto traversatore della cultura. Passava dai libri su Warhol - di cui era uno dei massimi esperti mondiali - a quelli sui miti del pop, da Jackson a Skin, che gli assicuravano la pagnotta; inventava riviste d’arte; scriveva testi per la tv, Rai e La7, Mtv e All Music. Labranca era straordinario anche come conduttore su Radio 24. Ma dai salotti di Milano, dai grandi divi del piccolo schermo e dagli editori che contano era considerato un allegro rompicoglioni, da invitare alle feste ma da tener lontano dai palinsesti. Lui lo sapeva e rispondeva con il disincanto dei folli e dei sognatori.
Aveva fondato, con Luca Rossi una casa editrice per «giovani, capaci, fuori dal coro, che non paserebbero mai in Mondadori...», la 20090, con cui pubblicava saggi come Vraghinaròda. Viaggio allucinante fra creatori, mediatori e fruitori dell’arte, una gettata d’acido in faccia all’arte degna, appunto , del miglior Capote di Harper’s Bazaar. «Sai, l’ho scritto e pubblicato da solo perché non me l’avrebbe accettata nessuno», mi confidava, con uno sbuffo di cruccio per l’eremitaggio culturale, davanti ai terribili caffè che gli offrivamo alla macchinetta della redazione. Qualsiasi nostra altra pregiata firma avrebbe rifiutato il caffè con sdegno, mentre Labranca l’ingollava come la cicuta di Socrate.
Labranca aveva scritto per le migliori riviste italiane di tendenza; tradotto i migliori autori americani contemporanei - da Lisa Goldstein a Oliver James e Flocker Michael, che introdusse la teoria sociale del metrosexual; prodotto le miglior opere di narrativa mordi-e fuggi come ll fagiano Jonathan Livingston. Manifesto contro la New Age o Kaori non sei unica. La prima antologia di letteratura spot. Era, insomma, un genio polimorfo.
Era la nostra ciliegina sulla torta, era il miglior collaboratore delle pagine culturali di Libero, che l’aveva recuperato, oltre che al giornalismo di costume, anche al suo vecchio pallino, la critica d’arte. Labranca era il più veloce tra quelli bravi e il più bravo fra quelli veloci. Naturalmente quando lo si mandava a recensire una mostra, curatori e galleristi velavano lo sguardo di fiero terrore; e lui - autore pensoso a ritmo annuale per Einaudi e a scansione settimanale per l’Anima mia di Fabio Fazio - mandava, nei tempi ristretti del quotidiano, il pezzo perfetto, senza un refuso o una sbavatura, così denso di notizie e d’ironia che ti veniva subito voglia di affidargliene un altro. Dicevo della macchinetta del caffè. Per Tommaso era una sorta di confessionale laico. Lì si confidava. S’immalinconiva per lo stato pietoso in cui i divi pop oggetto dei suoi libri avevano gettato la lingua italiana; si divertiva a ricordare di quando inventava neologismi tipo «neoproletariato» o di quando stroncava i libri di Alberoni satireggiandone il testo come se fosse una nuova versione delle Osterie.
Ieri la sua morte era tra i trend topic di Twitter, tra le cose più lette nella Rete. Molti dei twittaroli che oggi lo piangono sono, ovviamente, gli intellettuali che lo avevano emarginato. Io, che ne ho invidiato la scrittura e il disincanto, ora ne piango l’umanità. C’erano così tanti progetti. Labranca, come Capote, non ha avuto il tempo di realizzarli...

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Claudio Giunta per Il Sole 24 Ore
Lo scrittore Tommaso Labranca è morto domenica notte, per cause ancora sconosciute, a 54 anni. Per quelli come me, nati nei primi anni Settanta, Labranca è stato, all’inizio, l’autore di due libri geniali usciti nei Novanta, “Estasi del pecoreccio” (1995) e “Chaltron Hescon” (1997). Erano geniali perché Labranca faceva il contrario di ciò che ci avevano insegnato a fare a scuola e all’università: da un lato prendeva molto sul serio le cose pop (Tv, cinema di serie B, canzonette, fumetti), e ne parlava con amore, ironia e intelligenza, e in più con uno stile magnifico, lontano anni-luce dai birignao dei semiologi; dall’altro trattava la cultura “seria” con un’indipendenza di giudizio che per noi vittime del liceo classico e della facoltà di Lettere aveva una autentica forza liberatoria. Labranca prendeva in giro tutti, gli elzeviristi pensosi, i romanzieri impegnati, i peracottari dell’arte contemporanea, ma soprattutto ce l’aveva con la Cultura, cioè con la retorica idiota che avvolgeva e avvolge, specie in Italia, le arti e il discorso sulle arti. Labranca indovinava il grottesco là dove gli altri credevano di vedere il sublime, rideva là dove gli altri indossavano la loro maschera compunta. Il sottotitolo del saggio “Chaltron Hescon, Fenomenologia del cialtronismo contemporaneo”, è un buon compendio della sua opera e sintesi preveggente dei vent’anni che sarebbero seguiti.
Vent’anni nei quali la voce di Labranca si è sentita poco, molto meno di quanto sarebbe stato giusto (per lui) e salutare (per noi). I suoi libri successivi sono stati pubblicati da piccoli editori; gli ultimi se li è pubblicati da solo. Sono quasi tutti bellissimi: sia quelli in cui continua a riflettere sulla venefica atmosfera culturale che si respira in Italia (“Neoproletariato. La sconfitta del popolo e il trionfo dell’eleghanzia”. del 2002; “Vraghinaroda”, appena uscito); sia quelli in cui parla della sua vita, con un’intensità, un acume e una qualità di scrittura che hanno pochi eguali nel panorama della prosa contemporanea (“78.08”, lo splendido, accorante memoir “Il piccolo isolazionista”); sia quelli in cui usa la sua intelligenza per raccontare le vite degli altri, come il romanzo “Haiducii”, che è un libro pieno di sana commozione e di allegria, e che mi ha fatto capire come vivono e cosa pensano gli immigrati rumeni meglio di qualsiasi documentario o saggio, e – come per un riflesso della stupenda umanità di Labranca – me li ha resi amici. Oltre a questi libri, per campare, in questi vent’anni Labranca ha dovuto scriverne parecchi altri “servili” dedicati alle star del cinema, della Tv e della canzone (Michael Jackson, Pietro Taricone, Renato Zero, i Coldplay), e ha fatto l’autore radiofonico e televisivo.
Non l’ho mai incontrato, ma dai suoi libri, dalle interviste e da quello che si sente in giro si capisce che doveva avere un carattere difficile, refrattario ai compromessi, censorio. Non credo fosse capace di dissimulare il suo disprezzo per il mondo para-culturale della Tv e dei giornali da cui dipendeva buona parte dei suoi introiti: sugli abitanti di quel mondo ha scritto alcune delle sue pagine più amare e divertenti, pagine su cui non potrà non riflettere chi voglia farsi un’idea del misero glamorama italiano a cavallo tra i due millenni.
Questo cattivo carattere («una persona gentile, sensibile, ingenua e totalmente inabile al cinismo», così lo ricordava ieri lo storico del cinema Giacomo Manzoli: e tale può essere purtroppo – nell’Italia come è – la definizione di un cattivo carattere), questa vocazione all’isolamento, non giustifica in alcun modo, dato il suo talento, l’ostracismo che la cultura (cioè la Cultura) italiana gli ha inflitto. Ma non si sottovaluta mai abbastanza l’establishment culturale di questo Paese. Che un uomo simile fosse quasi costretto al silenzio, e all’autopubblicazione, mentre le pagine dei giornali e gli scaffali delle librerie tracimano delle opinioni dei cretini, è una cosa che lascia senza parole. Vedo che nei ricordi in rete lo si incasella nella categoria del “trash” o dei “cannibali”, ma sono etichette del tutto inadeguate: chi leggerà o rileggerà i suoi libri vedrà che Labranca è stato un grande scrittore, irriducibile alle categorie e alle etichette, e soprattutto uno degli italiani più intelligenti della nostra epoca.