Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  agosto 29 Lunedì calendario

«La mia vita col mio amante Oliver Sacks»

Quando Oliver Sacks è morto a 82 anni, il 30 agosto del 2015, il mondo ha perso uno scrittore e un neurologo molto amati. Io ho perso il mio partner. Oliver odiava quella parola: partner. «Un partner è un socio in affari», diceva impermalito, «non è uno che dorme con te, che prepara la cena in cucina insieme a te». Era la meticolosità incarnata nelle parole. Non ci siamo mai sposati – non abbiamo mai voluto – perciò”marito” era fuori discussione, e “compagno” era troppo eufemistico. Oliver era all’antica: preferiva la parola “amanti”. Ci amiamo: questo diceva tutto. Ripensando alla mia vita con Oliver, mi vengono in mente due episodi dell’anno scorso, ciascuno rivelatore di un aspetto del dottor Sacks pubblico e del dottor
Sacks privato. Il primo è avvenuto in casa, alla fine di novembre del 2014, due mesi prima che gli diagnosticassero un cancro in fase terminale. Avevamo appena finito di cenare, erano le sette e mezza circa, quando sentì del rumore per strada, gente che scandiva slogan. Andammo alla grande finestra panoramica che affaccia sull’Ottava Avenue e vedemmo che era un corteo del movimento Black Lives Matter, contro le uccisioni di afroamericani da parte della polizia: la strada era piena di gente, c’erano cordoni di polizia, cartelli, megafoni. «Dovremmo essere con loro», disse Oliver. Normalmente era l’incarnazione dell’apoliticità, ma era rimasto estremamente turbato dagli eventi di Ferguson, dall’uccisione di Eric Garner a Staten Island, dai reiterati episodi di violenze della polizia, tutti moralmente riprovevoli. Ma ormai i manifestanti si erano già spostati un isolato più a nord, verso la 14ª strada, e noi ci rimettemmo seduti.
Una decina di minuti dopo sentii lo stesso suono, gli stessi slogan. «Oliver, credo che stiano tornando, c’è un altro spezzone». «Andiamo!». Oliver prese il bastone, camminò più velocemente che poteva fino all’attaccapanni e iniziò a infilarsi giubbotto, sciarpa, cappello e guanti. Io ero in grado di vestirmi in un secondo, ma lui ci metteva più tempo. Quando alla fine fummo fuori dal palazzo, i manifestanti se n’erano di nuovo andati. Tornammo dentro abbacchiati. Ma prima di poter riappendere i giubbotti sentimmo in lontananza un altro spezzone di manifestazione, e senza andare alla finestra per verificare ci rinfilammo i giubbotti. «Sembriamo i Fratelli Marx», disse Oliver ridendo. Risalimmo in ascensore, uscimmo fuori e ci unimmo alla coda dell’ultimo spezzone di corteo, risalendo l’Ottava Avenue e poi piegando a est verso la 14ª. Oliver, che aveva recuperato l’aplomb, gridò insieme agli altri per diversi isolati. Camminavamo più lentamente del corteo e riuscimmo ad arrivare solo fino alla Sesta Avenue. Da quel punto restammo a guardare i manifestanti che si allontanavano, diretti a un grande comizio a Union Square.
La domenica, io e Oliver facevamo una lunga passeggiata per il West Village e finivamo spesso nella nostra libreria preferita, Three Lives & Company. Una di queste domeniche, nel giugno dello scorso anno, uno dei commessi, Tony, ci chiede se saremmo andati alla “Serata Oliver Sacks” da Julius, il locale per omosessuali di fronte alla libreria. Rispondemmo che non ne sapevamo nulla e Troy tirò fuori un volantino del party mensile della Mattachine Society di Julius: ogni festa aveva un tema, e il tema del mese era “Oliver Sacks”. L’ispirazione, apparentemente, era venuta dalla foto sulla copertina della sua autobiografia In movimento (edita in Italia da Adelphi, ndt). Si vedeva Oliver nel 1961, a 27 anni, fichissimo in sella alla sua moto Bmw e vestito tutto in pelle. Nel libro, che era stato pubblicato un mese prima, aveva dichiarato pubblicamente per la prima volta la sua omosessualità e aveva parlato della nostra relazione. Guardai Oliver, scettico: «Vorresti andare? Ci vuoi andare?». Ero sicuro che mi avrebbe detto di no. «Sì», rispose lui tutto a tratto, «ci vorrei andare».
Nei sei anni che abbiamo trascorso insieme come coppia, non eravamo mai andati in un locale gay. Oliver era molto nervoso all’idea di essere riconosciuto come omosessuale; ma al di là di questo, con la vista e l’udito in continuo peggioramento non riusciva a sopportare i luoghi rumorosi e affollati, di qualsiasi genere. Erano almeno quarant’anni che non metteva piede in un locale gay. Ma ora? E per un motivo così divertente, poi: perché no? La serata cominciava alle nove. Arrivammo in anticipo. (Oliver era sempre in anticipo agli appuntamenti: ritardare, anche soltanto di cinque minuti, lo gettava nel panico.) Io ordinai delle birre e sentendomi audace presentai Oliver all’attraente cameriere. Il ragazzo sembrava confuso, come se pensasse: «Ma come? Oliver Sacks è ancora vivo?». (Non si poteva dargli torto: in un articolo molto letto, pubblicato qualche mese prima sul New York Times, aveva parlato esplicitamente della sua malattia e della sua morte incombente). Oliver, che normalmente era molto taciturno e impacciato quando si trattava di fare due chiacchiere, intervenne prontamente: «Sì, sono io», disse indicando i volantini con la sua immagine incollati su tutti gli specchi e le pareti del locale. «Sì, insomma, io molto, molto tempo fa».
Il ragazzo strinse la mano di Oliver con un’aria di sincero rispetto, poi sparì. Dopo pochi istanti, ne capimmo il motivo. Dagli altoparlanti uscì una voce: «Signori, signore e queens, posso avere la vostra attenzione? Abbiamo appena saputo che il dottor Oliver Sacks è presente nel locale: benvenuto alla Serata Oliver Sacks, dottor Sacks!». Esplose un applauso. Oliver sembrava lusingato come non mai. Poi, cosa che lo divertì ancora di più, arrivò una drag queen molto alta, gli batté il dito sulla spalla e lo prese per mano. Lo condusse più all’interno del locale e gli prese uno sgabello, facendolo appollaiare vicino al tavolo dove un dj stava preparando la sua attrezzatura. «Che cosa ti posso portare, tesoro?», gli disse la drag queen. «Oh!», esclamò Oliver. «Non lo so!». Oliver e le decisioni: un altro punto problematico per lui. Mi intromisi io: «Abbiamo già bevuto delle birre, ordinane un’altra». La drag queen strinse la parte superiore del braccio di Oliver. «Una birra in arrivo, bellezza», gli disse. «E complimenti, bei bicipiti». «La ringrazio molto», disse Oliver con cortesia.
Gli misero in mano una Heineken ghiacciata, ma riuscì a prendere solo un paio di sorsi. Uomini e donne facevano la fila per conoscerlo, e lui stava lì in trono, sopra uno sgabello traballante vicino a una postazione dj improvvisata dentro al locale gay più vecchio di New York, a stringere la mano a una fila interminabile di omosessuali come lui. Molti erano vestiti come l’Oliver Sacks del poster, in pelle. Qualcuno si limitava a salutarlo, altri gli chiedevano un autografo o un selfie, tre o quattro gli raccontarono delle storie. Tutti lo ringraziavano. Una ragazza raccontò a Oliver che era autistica e che i suoi libri sull’autismo avevano aiutato lei e la sua famiglia a comprendere la sua identità. A quel punto, un’ora dopo il nostro arrivo, il locale era stipato di gente e la musica cominciava a diventare troppo forte, e valutammo che fosse meglio andare via, per non stressarlo e affaticarlo troppo. Salutammo e uscimmo dal locale, ma diversi uomini ci seguirono fuori e cominciarono a fargli domande: «Come sta, dottor Sacks?», «come si sente?», «su che sta lavorando?», «com’era Robin Williams quando giraste Risvegli?», «qual è il caso più insolito che ha avuto?», e così via.
Oliver si era appoggiato a un lampione: intorno a lui si era formato un semicerchio (c’erano anche Troy e il suo fidanzato) e chiacchierava e rispondeva alle domande con vivacità. Andò avanti per mezz’ora, poi mi fece capire con lo sguardo che voleva andar via: si capiva che era esausto. Poco tempo dopo quella serata, avremmo scoperto che le metastasi del suo fegato si erano estese ad altri organi, rendendo la prognosi ancora più fosca di quello che ci aspettavamo: avevamo sperato che potesse andare avanti almeno altri sei mesi. Oliver mi prese per il braccio e camminammo lentamente verso casa. «Beh, è stato molto carino», disse. «Molto piacevole davvero». Concordai con lui. «Magari una di queste sere ci torniamo». Oliver ci pensò su per un momento. «No, per me è stato sufficiente. È stato perfetto».

©The New York Times 2016
Traduzione di Fabio Galimberti

Bill Hayes è l’autore del libro (di prossima pubblicazione negli Usa) “Insomniac City: New York, Oliver, and Me”.