25 agosto 2016
Quella maledetta faglia appenninica
Mario Tozzi per La Stampa
Le lance di Marte erano infisse nel suolo e addossate alla parete settentrionale della Regia, nel Foro Romano. Quando vibravano qualcosa di terribile era accaduto: nel 44 a.C. l’assassinio di Cesare, tutte le altre volte un terremoto da Nord, dalla regione compresa fra alto Lazio, Umbria e Marche, la stessa che continua sistematicamente a tremare da millenni. Non era un mistero e non è colpa della Terra: le catastrofi naturali non esistono, esistono solo la nostra ignoranza, l’assenza di memoria, il malaffare e la scarsa propensione alla prevenzione. Tutto il resto (ritardo nei soccorsi, fatalità, destino e dei), sa di scusa e l’abbiamo sentita talmente tante volte da provocare un senso di nausea, soprattutto nel momento in cui molte persone lottano per sopravvivere sotto le macerie. Proprio questo, però, è il momento per riflettere e per capire.
C’è una responsabile del terremoto di Accumoli, una responsabile che agisce insieme con altre sue simili in un’area molto vasta che va dal confine Umbria, Marche e Lazio fino alla valle del Tevere. È una faglia (come per tutti i terremoti), ma particolare (come tutte le faglie), frammentata in tanti segmenti allineati, ma non continui, che percorre il sottosuolo dell’Appennino centro-settentrionale fino a oltre 20 km di profondità. Un sistema di faglie che non accumulano energia in silenzio per poi scaricarla in «botte» tremende, ma rare. Al contrario, si carica di energia elastica come una molla e poi si libera con frequenza impressionante e, a livello geologico, quasi costante. Nel 1328 il terremoto durò tre mesi, nel gennaio del 1703 la grande scossa fu preceduta da numerose altre premonitrici (che qualcuno potrebbe oggi interpretare come coppie sismiche), nel 1831 il terremoto di Foligno durò oltre quattro mesi. La sequenza sismica della Val Nerina (1979) aveva raggiunto il IX grado della scala Mercalli, intensità raggiunta e superata più volte nella regione attorno, ad esempio nel 1997 con la coppia sismica di Colfiorito, paragonabile per energia liberata.
Cicerone (nel 63 a.C.) ne parla nelle «Catilinarie», Tacito (51 d.C.) ricorda che nelle zona «le case crollano per i frequenti terremoti»: nessuna anomalia, solo il normale «lavoro» del nostro pianeta che qui si era reso manifesto più che altrove. Anzi, questo è il tipico terremoto italiano: magnitudo media in contesti collinari rurali scarsamente popolati, con edifici costruiti spesso male, con materiali di risulta, senza progettazione antisismica moderna, le cui conseguenze sono danni devastanti. A questo seguiranno inevitabilmente la fase delle tendopoli, poi quella dei container (e per favore, evitateci la vergogna delle new town) e lustri per la ricostruzione. E, alla fine, la marginalizzazione di un territorio già lontano da tutto, pur essendo il centro geografico della penisola.
Siamo in una regione della crosta terrestre che, dopo aver visto il sollevamento di una catena montuosa (l’Appennino) dalle profondità marine a causa della spinta reciproca dei blocchi africano ed europeo, ora attraversa un periodo di tensioni, piuttosto che di compressioni. Qui la crosta non viene portata a piegarsi e ad accartocciarsi su se stessa, come quando si forma una montagna, anzi: viene «stirata», estesa fino alla formazione di spaccature profonde, le faglie.
L’Appennino si è innalzato fino a oltre 3000 metri, ma ora sta ricominciando lentamente a scendere di quota, assestandosi a livelli più bassi: grandi faglie distensive permettono questo aggiustamento, spostando di volta in volta intere «fette» della catena. Insieme ad aree in abbassamento ce ne sono molte in sollevamento e proprio da queste disomogeneità si creano quegli «strappi» (le faglie) che danno luogo ai terremoti. Non è un fenomeno solo di queste parti, è di tutto l’Appennino, di una nazione che è di montagna e ad alto rischio naturale come il Giappone, che però si illude di essere piatta e tranquilla come la Siberia: l’Irpinia (1980) e L’Aquila (2009), come Avezzano (1915) e Reggio Calabria (1908), fanno parte della stessa storia geologica.
Questo terremoto è decine di volte meno energetico di quello dell’Aquila, eppure i danni sembrano maggiori (forse non le vittime: molto più scarsa è la densità di popolazione). Perché? Non dipende solo dalla geologia del sottosuolo, che può aver amplificato localmente le onde sismiche, ma soprattutto da come si è costruito e da quanto si è dimenticato. Non è mai il terremoto che uccide, ma solo la casa costruita male. La regione è sismica da sempre, ma le progettazioni del patrimonio costruito sono, nel migliore dei casi, non più efficaci. Ci vorrebbe un adeguamento antisismico e soprattutto ci vorrebbero controlli continui almeno agli edifici pubblici, che debbono continuare a funzionare nell’emergenza: ma qui l’ospedale di Amatrice crolla e le caserme reggono a stento. Bisognerebbe spendere in prevenzione quando non ci sono terremoti: si risparmierebbero non solo vite, ma anche denari (un euro in prevenzione ne vale 8-10 in emergenza). Bisognerebbe dedicare le pubbliche risorse a questo e non a infrastrutture inutili e nuove costruzioni di cui non c’è alcun bisogno. Questo dovrebbero fare amministratori consapevoli e attenti. Questo in Italia non fa quasi nessuno. E, quando arriva il terremoto, sembra sempre che fino al giorno prima non ce ne siano stati: mai come in questo caso sappiamo che non è vero.
Silvia Bencivelli per la Repubblica
Che cosa sta succedendo, che cosa succederà, e perché tante coincidenze con terremoti precedenti? Lo abbiamo chiesto al geologo e sismologo Alessandro Amato, dirigente di ricerca dell’Ingv (Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia) ed ex direttore del Centro nazionale terremoti.
CHE COSA STA SUCCEDENDO ALL’APPENNINO? PERCHÉ TANTI TERREMOTI IN QUELLE REGIONI?
«L’Appennino si sta, in un certo senso, allargando — spiega Amato — E lo sta facendo a un ritmo di 3-5 millimetri all’anno. Significa che più o meno ogni due secoli c’è un metro di “trazione” da compensare, lungo tutta la penisola». Per un po’, la situazione rimane stabile, e a noi sembra di poter stare tranquilli. «Questo avviene perché lungo l’Appennino abbiamo faglie attive che per decenni, secoli, resistono a questa trazione. Però a un certo punto cedono, d’un tratto. Ed è così che arriva il terremoto o una serie di terremoti», prosegue Amato. Queste faglie insistono su segmenti di 20-30 chilometri, di conseguenza i terremoti avvengono non su tutta la penisola, ma in zone sempre abbastanza limitate.
STANNO AUMENTANDO I TERREMOTI IN ITALIA?
No, è solo un’impressione. «Anzi sono 36 anni che non avviene un grandissimo terremoto, di magnitudo intorno ai 7, come quelli che nel passato hanno colpito Messina o l’Irpinia, o Avezzano, ma è comunque difficile da dire. Ci sono oscillazioni normali della sismicità e i terremoti non avvengono mai in maniera regolare e periodica». In genere si nota che terremoti importanti in Italia avvengono ogni quattro o cinque anni, e anche stavolta quindi ci siamo.
QUESTO TERREMOTO HA AVUTO MAGNITUDO 6: È STATO PERCIÒ FORTE COME QUELLO DELL’AQUILA, CHE ERA DI MAGNITUDO 6.2?
In realtà, in termini di energia liberata il terremoto aquilano è stato molto peggiore. «Tra un terremoto di magnitudo 6 e uno di magnitudo 6.2 l’energia liberata è il doppio. Perché la magnitudo si misura con una scala logaritmica e da un punto all’altro l’energia aumenta di 32 volte». Insomma: non si possono fare valutazioni a spanne. E comunque l’informazione da sé sarebbe incompleta. «Ci possono essere variazioni importanti, per esempio nella frequenza delle onde sismiche». E anche alla profondità dell’ipocentro non si possono attribuire molte differenze o analogie tra i due terremoti: «Questi terremoti rompono comunque tutta la parte fragile della faglia. Cioè l’ipocentro è solo il punto di inizio della rottura. In questo caso l’ipocentro del terremoto è stato meno profondo, ma può aver fratturato la faglia verso l’alto e verso il basso. Comunque, andranno fatti tutti i calcoli del caso anche prima di fare queste considerazioni».
ED È UN CASO CHE SIA AVVENUTO QUASI ALLA STESSA ORA DEL TER-REMOTO DELL’AQUILA?
«Potremmo elencare tutti i terremoti avvenuti in Italia al mattino, come quello di Colfiorito. O come quello del Molise, che infatti ha visto la tragedia dei bambini deceduti nel crollo della loro scuola», insiste Amato. O quelli che sono successi di sera, come quello dell’Irpinia. A margine si potrebbero fare considerazioni su come cambia la distribuzione delle persone sul territorio a seconda dell’ora in cui avviene la scossa (ciascuno a casa propria a dormire, o tutti concentrati in pochi posti, come scuole e sedi di lavoro). Ma anche questo lascia il tempo che trova.
IN QUESTO CASO IL TERREMOTO NON È STATO PRECEDUTO DA UNO SCIAME SISMICO: È UN’ECCEZIONE?
«Al contrario: è praticamente la regola». Anche su questo Amato vuole essere chiaro. «Semmai è stata un’eccezione l’Aquila. È difficile fare statistiche precise e indicative, ma il più delle volte non ci sono scosse, oppure ci sono scosse minime e isolate, come è successo in Emilia. Mentre ogni anno in Italia ci sono decine di sequenze sismiche, e dal terremoto dell’Aquila a oggi ce ne saranno state 200-300, che non vengono seguite da terremoti». Abbastanza inutile, quindi, per le conoscenze scientifiche del momento, considerare il fenomeno un precursore.
CHE COSA PUÒ SUCCEDERE ADESSO IN QUELLE ZONE? E NEL RESTO DEL PAESE?
Lì può ancora succedere qualcosa. «Ci aspettiamo che, come sempre, ci sia una serie di scosse che dureranno giorni, i cosiddetti aftershock ». Quanti e quali, impossibile però da dire: «Nel giro di un mese o due decadono, sia di numero sia di intensità, ma nei primi giorni le oscillazioni possono essere importanti », prosegue Amato. Addirittura essere quasi forti come la scossa principale. Perciò cautela. Mentre per quanto riguarda il resto del paese: «Ricordiamo che anche un giorno o due prima della scossa c’erano stati piccoli terremoti in Sicilia e altre parti d’Italia. Lì l’attività sismica prosegue come sempre». Imprevedibile. Perciò l’unico modo per difendersi, è prevenire i danni.
Anna Meldolesi per il Corriere della Sera
Immaginiamo due paesi vicini: San Sismino e Rocca Sismina. Immaginia-moli fra 10 anni. Sapendo di vivere in una zona sismica gli abitanti del primo paese investono su un’app che tenta di prevedere i terremoti detta «Crystal Ball», sfera di cristallo. Gli abitanti del secondo si affidano invece a un’app alternativa chiamata «Io non rischio», che sulla base delle condizioni degli edifici calcola il livello di danno atteso e consiglia ai singoli cittadini strategie di intervento adeguate. Quando nel 2026 il sisma arriva, uno dei due centri viene distrutto e l’altro si salva. Vogliamo andare nella direzione di San Sismino o di Rocca Sismina? Questo esperimento del pensiero, proposto da Roberto Paolucci in un collettaneo sui terremoti pubblicato da Franco Angeli , è tornato di tragica attualità, insieme all’eterna domanda: possiamo sperare di riuscire a prevedere o dobbiamo darci da fare a prevenire? In questo caso, si poteva supporre che il sisma dell’altra notte avrebbe colpito? E dobbiamo aspettarci che accada di nuovo in futuro? Abbiamo riproposto questi interrogativi alla geologa del Cnr Paola Salvati, che studia proprio l’Appennino centrale e ci ha ribadito ciò che i sismologi vanno ripetendo dal 2009, quando tremò l’Aquila. «Su tante cose la scienza è incerta, in tanti campi facciamo calcoli probabilistici. Ma di questo invece siamo sicuri: i terremoti non si possono prevedere». Impossibile indovinare il dove, il quando e il quanto, insomma collocare l’epicentro, azzeccare la data, stimare in anticipo l’energia che verrà rilasciata da un sisma. Ma questo non significa che non disponiamo di conoscenze utili: basta guardare la striscia rossa che percorre l’Italia centrale nella mappa del rischio sismico. Paola Salvati si trovava a Terni quando è stata svegliata dalle scosse e le ha subito riconosciute come se fossero delle vecchie conoscenze che tornavano a bussare. «Forti, lunghe, mi sembrava di rivivere il terremoto del 97-98 in Umbria e Marche». Prima ancora, nel ’79 c’era stato il sisma di Norcia. Colpa della tettonica estensionale, ci spiega la ricercatrice. «La Catena appenninica è in estensione, la parte Adriatica (che si sta chiudendo) si allontana da quella Tirrenica, alcuni millimetri all’anno». A causa di questa deformazione, lungo le faglie si accumula energia che viene ceduta improvvisamente quando si arriva alla rottura. La porzione centrale della Catena ha dinamiche diverse da quella meridionale o settentrionale. «La magnitudo dei terremoti è proporzionale alla lunghezza delle faglie, che sono in media di 20 chilometri». Si può quasi tracciare un identikit di questi sismi: «La magnitudo fra 5 e 6 è una costante che tende a ritornare, salvo eccezioni; l’estensione dell’area colpita tende a non essere grandissima ma nemmeno molto localizzata; a pochi chilometri di distanza si possono trovare paesi distrutti o risparmiati dalla tragedia». La disomogeneità degli effetti dipende «dall’amplificazione dovuta alla topologia e alle condizioni locali delle rocce», ci spiega Salvati. Ma anche da quando e da come sono stati costruiti (o ricostruiti) gli edifici. «La terra si muove, i terremoti avvengono, dobbiamo conviverci». Questo significa portare avanti ricerche a tappeto, lunghe e onerose, di microzonazione, che consentano di stimare il rischio in modo sempre più dettagliato in questa zona. E soprattutto sistemare il patrimonio immobiliare vulnerabile: ognuno di noi dovrebbe sapere quali sono i muri portanti della sua casa, quando è stata costruita, quali normative erano in vigore. «Bisogna farlo in tempo di pace, per così dire, senza aspettare la prossima emergenza». Non sappiamo quando accadrà di nuovo, ma sappiamo che succederà. Fra l’ipotetica strategia di San Sismino e quella di Rocca Sismina, non c’è dubbio che dovrebbe fare scuola la seconda.