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 2016  agosto 24 Mercoledì calendario

Francesco Guccini torna sul palco, ma non per cantare. Intervista

Avrà pure smesso di cantare, e su questo non ci sono deroghe, ma sembra più attivo di prima. «Temo di sì», dice ridendo, alludendo alle serate in cui “chiacchiera” in pubblico, spesso prima che i Musici, ovvero i suoi ex compagni di banda musicale, ripropongano le sue più famose canzoni. «Però mi sto divertendo a portare in giro queste serate, sono mediamente molto simpatiche, la gente sembra molto interessata, anche solo a sentirmi parlare, cosa che non mi spiego, ma comunque funziona».
E in più si profila addirittura una tre giorni tutta dedicata a lui, dal 2 al 4 settembre a Porretta Terme (parte dei ricavati andrà ad Emergency), non molto distante dal tranquillo rifugio collinare di Pavana in cui vive. «Ma sì, è interessante, ci sarà una giornata dedicata ai libri e ci sarà un monologo di Giorgio Comaschi che s’intitola “Tra la via Emilia e il West”, poi una giornata tutta musicale, e la terza dedicata a cinema e documentari, con ospiti, amici, e perfino musicisti spagnoli che hanno tradotto in catalano e castigliano le mie canzoni. Tra cui, in catalano, La locomotiva, che devo dire è molto bella anche se non ho capito praticamente nulla, ma Silvia Comes è molto brava e il senso s’intuisce».
Ma davvero non ha mai la tentazione di tornare a cantare, anche solo per una volta?
«No, direi proprio di no, non ho neanche più i calli sui polpastrelli, la chitarra non potrei suonarla, una volta dietro il palco ho canticchiato con gli amici ma niente di più, di fatto non mi manca, non ho voglia di tornare a cantare su un palco, anche se è stata una parte così importante della mia vita».
Però in pubblico ci si trova, e con le nuove forme di “aggressione” dei fan dovrà farci i conti per forza…
«Ma sì, ora c’è questa mania di farsi le foto insieme, ogni volta che scendo dal palco mi devo sottoporre a questo rito, ma non è poi così terribile. Piuttosto a volte succedono cose bizzarre. Tempo fa ero a mangiare in un ristorante su un piccolo lago vicino Pavana. Si è avvicinata una signora e mi ha chiesto se poteva fare una foto con suo figlio. Io naturalmente ho accettato, poi nell’orecchio mi ha sussurrato che per convincere il bimbo gli aveva detto che ero Babbo Natale in vacanza. Insomma a volte mettono avanti i bambini, che ovviamente non sanno nemmeno chi sono, ma va bene così».
A proposito di bambini, pensa di aver lasciato con le sue canzoni un qualche tipo di eredità?
«Forse le mie canzoni qualcosa hanno detto, molti mi ringraziano, dicono che hanno significato molto nella loro vita. Cosa poi abbiano significato è tutto da scoprire, ma l’impressione è che a qualcosa siano servite e questo fa molto piacere, fa pensare di aver scritto qualcosa di più consistente, soprattutto se penso che alcune di queste canzoni risalgono addirittura ai primi anni Sessanta».
E in cosa consisterebbe questa eredità, qual è la caratteristica più importante del suo mondo poetico?
«Difficile dirlo, forse per un tessuto più ruvido, dove magari si sente una qualche verità. Io del resto raramente, se non mai, ho scritto una canzone per calcolo, per decisione, nascevano da dentro, dall’esigenza di raccontare qualcosa di me stesso, anche se poi se le prendevano altri, come è successo con i Nomadi o l’Equipe 84. Non è mai stato mestiere. Le canzoni possono essere tante cose diverse. Faccio un esempio degli anni Sessanta. Nello stesso momento c’era una canzone che cantava Bruno Filippini e diceva “lunedì, com’è triste il lunedì senza te” ecc… e poi “ma sabato sera ti porto a ballare, ti potrò baciare…”. Dall’altra c’era Fausto Amodei con la stessa idea dei giorni della settimana, che diceva”ogni sera fra i rumori di serrande che si abbassano, e gli scoppi dei motori delle macchine che passano, alla luce dei lampioni che si sono appena accesi puoi assistere agli amori che fan prima di cena”. La prima è semplice, nella seconda c’è un’idea più complessa, più vera della vicenda, una complessità di testo, come se fosse un racconto scritto. Ecco è questo che m’interessa di una canzone».
Certo per un artista mai allineato deve esser dura trovarsi di fronte a un panorama politico così deprimente. Del referendum costituzionale si è fatto un’idea?
«Sì, è un referendum che richiederebbe una profondità di pensiero politico molto alta, siamo chiamati a una decisione molto difficile, molto complessa, è difficile decidere, spesso si decide per simpatia, pro o contro Renzi, e in questo caso credo sia molto sbagliato».
Ma ha deciso come voterà?
«Certo, ma non lo dirò mai».
Che musica ascolta?
«Non sento le novità, sono rimasto agli amori giovanili, blues, rock’n’roll, ogni tanto sento le mie canzoni rifatte da altri, le hanno fatte perfino con l’orchestra sinfonica e devo dire che ascoltare L’avvelenata cantata da un baritono è un gran piacere. Le hanno fatte anche jazz e vengono piuttosto bene a parte Auschwitz, che non si presta molto».
In un certo senso la sua storia è nata con “Auschwitz”, tutto comincia da lì. Ma per andare a visitarla ci son voluti cinquant’anni…
«Sì, e vero, non c’ero mai stato prima di marzo. Incidente alla spalla a parte, è stata una botta allo stomaco impressionante, più di quanto mi aspettassi. Mi ha colpito la famosa porta con la scritta “Arbeit macht frei”, vista mille volte nelle immagini. Da vicino fa impressione ma è piccola, molto più piccola di quanto immaginassi».