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 2016  agosto 24 Mercoledì calendario

Quarant’anni senza Mao Zedong

Il sole è ufficialmente tramontato sulla Cina quaranta anni fa. Dieci minuti dopo mezzanotte, 9 settembre 1976: Mao Zedong, fiaccato dal morbo di Parkinson e dagli infarti, morì fisicamente sulla soglia degli 83 anni, lasciando sollevati e atterriti ottocento milioni di cinesi. Il Grande Timoniere, dal punto di vista politico, era in realtà deceduto da mesi, forse da anni. Non appariva in pubblico dal 1971, il movimento delle sue labbra veniva interpretato, a turno, da uno dei leader del comitato permanente, o dalla quarta moglie. Saperlo vivo però, anche al di là della Grande Muraglia, aveva un peso e alimentava un potere: questo incantesimo, quaranta anni dopo e con 500 milioni di cinesi in più, è la ragione che impedisce ai suoi successori di mettere in discussione il solo dio che ancora tiene unita la seconda potenza del mondo, assicurando il dominio al partito-Stato. Ognuno sapeva che dopo l’addio all’ultimo imperatore rosso, un’era si sarebbe chiusa. Il lutto durò sette giorni, nessuno straniero venne invitato ai funerali, dall’11 al 18 settembre una folla mai più contata sfilò giorno e notte davanti alla salma esposta in piazza Tienanmen, dove oggi è esposto il corpo mummificato del «grande e amato leader, maestro del proletariato internazionale».
Il fatto sorprendente è che le profezie autoritarie della propaganda di Pechino, più forti degli orrori della rivoluzione culturale, del grande balzo in avanti e delle guardie rosse, si siano sostanzialmente avverate. Nessun dittatore del Novecento, da Stalin a Lenin e da Hitler a Mussolini, come alcuno statista democratico, incarna un mito tanto impressionante e ancora così decisivo, cruciale per il destino della Cina e influente sulla sorte del pianeta globalizzato nel nome del capitalismo. È il paradosso del rivoluzionario «splendente sull’Oriente», significato dell’ideogramma «Ze-dong»: essere sopravvissuto alle ideologie che ne hanno consumato la sconfitta, fino a risultare essenziale sia per i post-comunisti che per i post-capitalisti, costretti a dimenticare le tragedie del maoismo. Un’amnesia, questa sì collettiva, economicamente necessaria, al punto che nemmeno la Cina riformista di Xi Jinping può affrancarsi dal suo mito fondativo, al potere per 27 anni. Il problema, perché tale resta, è che Mao non si risolve nella sua dittatura, tradotta in autoritarismo di partito: ha alimentato l’illusione mondiale di una via rivoluzionaria, movimentista e popolare del potere, alternativa umanizzata allo stalinismo sovietico. L’equivoco è che il successo del secolo cinese affondi qui, nel despotismo di un’oligarchia ereditaria, le sue radici. Per questo i cinesi continuano ad assolvere e a venerare l’uomo che restò capo fino all’ultimo respiro, come un sovrano celeste, mentre il resto dell’umanità ha rinunciato a processarlo, sedotta dal successo finanziario del decisionismo capital-comunista. I monumenti di Mao occupano metropoli e vita della Cina, il Libretto Rosso resta un best-seller, t-shirt, poster e busti del Grande Timoniere sono il souvenir di ogni straniero. La”memoria rossa” torna icona universale di una politica eroica, sacra e trasversale, una sorta di laica religione contemporanea ispirata al sacrificio: 40 anni dopo, per rinviare il naufragio di un sistema che nega il valore della libertà, Pechino esporta il suo ultimo prodotto: anche i consumatori hanno bisogno del marchio originale di un nuovo e globale”sogno cinese”.