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 2016  agosto 24 Mercoledì calendario

I tristi primati del presidente filippino

Millenovecento morti in sette settimane. Una media di 36 al giorno. Questa è la tragica conta della campagna contro la droga scatenata da Rodrigo Duterte, neo presidente delle Filippine che, in soli due mesi di servizio, ha già collezionato diversi tristi primati. È infatti riuscito in poco tempo a trasformare nel regno del terrore un Paese non certo all’avanguardia ma comunque apprezzato per i passi compiuti dai tempi della dittatura e dei presidenti rovesciati dalla piazza. Eletto democraticamente, Duterte si è messo a dare la caccia a tutti quelli che, a suo dire, erano «collusi con il narcotraffico»: poliziotti, deputati, senatori, giudici sono stati messi all’indice mentre tutti gli altri hanno incontrato una fine spaventosa. Ieri il suo capo della polizia, Ronald de la Rosa, si è presentato davanti al Senato con le cifre totali delle vittime: i 1.900 uccisi nel corso delle operazioni, veri e propri omicidi extragiudiziali. La loro colpa? Consumare o spacciare droga. O entrambe le cose. Ragione per cui la Commissione diritti umani delle Nazioni Unite ha levato la sua voce per condannare un ricorso alla violenza che non ha alcuna legittimità (né senso), persino nel codice penale delle Filippine.
La risposta di Duterte non si è fatta attendere: l’Onu «è inutile», ha detto. Non solo. Il «Castigatore», come ama farsi chiamare il presidente nell’Arcipelago del Sudest asiatico, ha minacciato di ritirare il suo Paese dal consesso delle nazioni, l’unico organismo che – dal Dopoguerra e seppure con tanti limiti – cerca di armonizzare e «civilizzare» la giungla chiamata mondo. Al contrario, ha ringhiato Duterte, «visto che siete così aggressivi con noi,… (parole irripetibili), vorrà dire che usciremo dall’Onu».