Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  agosto 24 Mercoledì calendario

A Chamonix, dove volano gli uomini con la tuta alare

Occhi invisibili dietro gli occhiali scuri, sigaretta rollata all’angolo della bocca: «Chi sono? Jean o Hughes è lo stesso. Io non sono nessuno e piango un amico. Troppo amico per volare oggi». Il «Cab», baretto con sgabelli alti da arrampicarci in un dehors stretto e lungo è davanti alla stazione della funivia del Brévent, picco di roccia a Chamonix, di fronte al Monte Bianco. Lassù arriva l’ultima cabina d’estate e d’inverno. E da quella cima si è buttato sfiorando la parete verticale di 200 metri Alexander Polli, 31 anni, italo-norvegese. La sua tuta alare è sfilata via in un batter di ciglia, a oltre 200 chilometri l’ora, ma i suoi amici non l’hanno visto più «uscire da quel canale». Si è schiantato contro un albero dopo un «cavatappi», una figura estrema del wingsuit, disciplina di volo che attira sempre più appassionati.
Quel neo Ulisse che dice di essere «Nessuno» e viene da un paesino della Savoia, non distante dal valico del Piccolo San Bernardo, il «Couloir de l’Ensa», infilato da Alex, lo ha fatto più volte. «Non ho voglio di raccontare, di parlare. Il vento? Balle, è un errore. Si muore sempre perché sbagliamo, come gli alpinisti». Chi ha scelto questo sport sa del pericolo. È un modo di vivere, almeno lo era per Alexander Polli che ha fatto tremila lanci e fondato una sorta di club, uomini volanti con il simbolo di una «M» e un Delta: «Morals Arrivederci». Polli scriveva su Facebook: «Che significa? Quello che volete voi. È un simbolo estremo per motivare il mondo, per testare le capacità in questo mondo». A Chamonix vive e lavora un gendarme del Plotone di alta montagna, guida alpina e appassionato del wingsuit. Si chiama François Gouy, veste la divisa, blu come la tuta alare. Racconta: «Ho perso due amici in pochi giorni. Uli Emanuele in Svizzera in un incidente ancora non chiarito e adesso Alex. Polli era un “rock and roll”, uno che spinge insomma. Grande professionista e protagonista di exploit. Uli, invece, era un “tedesco”, calcolava ogni cosa e mi chiamava prima di fare i lanci per verificare le sue analisi».
Sport troppo pericoloso. «Già, così si dirà adesso – risponde Gouy -. Ma non è così. È un disciplina in cui bisogna essere molto preparati. Ci si arriva dopo anni tra voli in aereo, in paracadute. Ci vuole uno stato d’anima particolare e testa. Come l’alpinismo di alto livello, ma nel wingsuit i pericoli oggettivi non ci sono, né valanghe, né frane». La tendenza di oggi è volare più radenti possibili a pareti e suolo, seguire le asperità del terreno, come se si fosse sciatori dell’aria. La guida gendarme: «È questa adesso la ricerca, seguire il terreno. E alcuni appassionati di questo volo adesso vogliono imparare ad arrampicare. Alpinismo e poi volo». Ma perché ci si butta dalle montagne? «Perché si vive?», risponde l’«Ulisse». E Gouy: «È un piacere intellettuale. Il wingsuit è quanto di più vicino al volo di un uccello. Nulla a che vedere con l’aereo, l’aliante, il parapendio. Ti senti un uomo volante, fai picchiate come un’aquila, sensazione inarrivabile con qualsiasi altro mezzo».
Saranno almeno in trecento ormai quelli che s’infilano nella tuta e si buttano giù dalle montagne. Gouy lo ha fatto da diverse vette del Monte Bianco, oltre che dal Brévent. Proprio da quella parete da dove ha cominciato il suo ultimo volo Alex Polli, trent’anni fa cominciava il volo in parapendio. «Fu una strage quel primo anno – dice il gendarme – e si voleva proibire il volo. Ora i voli non si contano più è gli incidenti mortali sono ridotti. Il wingsuit non diventerà mai popolare come il parapendio, troppo estremo. Non è uno sport da extraterrestri, ma è ancora giovane, ha bisogno di un’evoluzione. È come l’himalaismo di alto livello. Una nicchia che richiede professionalità».