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 2016  agosto 22 Lunedì calendario

Vi ricordate di Renato Pozzetto?

Un esercizio non facile, ma stuzzicante, è raccontare alle generazioni-social Cochi e Renato. E cosa hanno rappresentato negli anni ’70. Sintetizzando: sono stati due pionieri della comicità surreale, due burattini del non-sense, due showman che hanno invaso la televisione e il cinema di quegli anni con una carica di ironia e di irriverente intelligenza, spiazzando quell’Italia ancor ferma a Totò e Alberto Sordi. Cochi Ponzoni e Renato Pozzetto, in senso traslato, hanno fatto il Sessantotto da un palcoscenico. Sono stati due rivoluzionari del sorriso. Ed è bello scoprire come Renato, il 50% di quella forza comica, faccia ancora ridere (molto) e smuova appassionati d’antan e giovani curiosi in ogni angolo del nostro Paese. A Sarsina, un suggestivo centro sulle colline romagnole, Pozzetto ha messo in scena l’ultima pièce che si è inventato in questa strana estate senza Cochi. Lo abbiamo incontrato poco prima dello show, intuendo che per questa bella persona di 76 anni, nonostante una certa dose di malinconia dovuta alla scomparsa di affetti intimi (l’amatissima moglie Brunella) e di amici fraterni (Enzo Jannacci su tutti), la vita l’è bela.
Fa strano vederla senza Cochi in questo one-man-show singolare sin dal titolo: “Siccome l’altro è impegnato”.
«Me lo sono inventato perché il Cochi sta facendo altro e non è potuto venire in tournée con me».
Dopo i successi iniziali, al Derby e in tv, lei e Ponzoni vi eravate già persi di vista a metà anni ’70?
«Sì. Per fare cinema: io girai da solo Per amare Ofelia, lui fu chiamato da Lattuada. Poi ci siamo ritrovati nel 2000 per una serie tv, Nebbia in Val Padana. E poi a teatro».
Chiariamo, quindi, una cosa: lei e Cochi non avevate litigato come tante altre coppie celebri dello show-business?
«Affatto. Tra noi la distanza fu solo geografica e professionale: lui andò ad abitare a Trieste con la sua nuova compagna. Ma parliamo di mille anni fa».
La gente gradisce ancora la vostra comicità che risale a 40 anni fa: stupito?
«Tutto quello che abbiamo creato io e Cochi negli anni ’70 è rimasto nel cuore della gente. A volte ci stupiamo di come il pubblico di ogni età sappia a memoria le nostre canzoni. L’altro giorno due mie nipotine hanno portato una nostra canzone all’asilo per una recita. La sapeva tutta la classe!».
Si è mai chiesto: perché lei e Cochi abbiate fatto ridere tutta l’Italia, in quegli anni ’70?
«La cosa buffa è che eravamo semplicemente noi stessi. In tv e al cinema ripetevamo cose che ci dicevamo tra noi. “E la Madooonaaa”, ad esempio, era una frase del nostro stare insieme la notte, nelle osterie di Milano e poi al Derby. Ma è diventata un tormentone e i critici dissero: avete inventato un nuovo modo di fare comicità».
Il senso del surreale, però, non l’aveva ancora proposto nessuno.
«Vero. Siamo andati oltre la comicità dell’avanspettacolo anni ’50 e, per questo, i padri e le madri ci guardavano male. Il nostro cabaret era uno spettacolo di arte varia ma senza tempo. Nell’ultimo show ho inserito frammenti di vecchi film, come Il ragazzo di campagna o È arrivato mio fratello, e una canzone-sorpresa».
Qual è?
«Si intitola La tosse, l’avevo scritta anni fa con Jannacci per Sanremo, ma fu rifiutata. Parla di uno sventurato artista che vorrebbe cantare per il suo pubblico, ma viene fermato da una tosse bestiale. Fa molto ridere».
Cochi e Renato hanno rappresentato, per il cabaret, quel che è stata l’Olanda di Cruyff nel calcio?
«Abbiamo tracciato un nuovo solco con un stile che conteneva un pizzico, mi perdoni, di intelligenza».
Oggi avreste lo stesso successo?
«Penso di sì. La nostra forza era l’originalità. Avevamo qualcosa di innato che ci rendeva differenti dai comici che c’erano stati prima».
Ci faccia qualche esempio.
«Le nostre canzoni, il modo di interpretarle, le gambine che tenevano il tempo, lo sguardo fisso sulla telecamera. Eravamo glaciali, non abbiamo mai chiesto l’applauso al pubblico. E abbiamo cantato di galline e di indiani, di omosessuali. Roba fuori dal mondo per l’epoca. Ma, alla fine, la vita era sempre bela».
Di omosessuali? In quale brano?
«Il barbiere di Corso Vercelli: il protagonista parla al telefono con Bisio, Galliani e altri uomini pelati ma, alla fine, si innamora del suo cliente».
La gallina è ancora un animale intelligente?
«Eccome! La gente si spazientisce, non vede l’ora che la proponga. E, a 76 anni, devo alzare la gambina mentre la canto. Ma anche La vita l’è bela è tra le più richieste. Se non la faccio, mi tolgono la pelle».
Cita  «La vita l’è bela» e ci viene in mente il suo autore: Jannacci. Per lei era più un amico o un collega?
«Amico e genio. Generosissimo, sempre pronto ad aiutarci. Un poeta, una fonte di ispirazioni magiche. E di follie. Una volta ci raccontò: negli anni ’60 al Derby avevamo di tutto, ma proprio tutto, persino la pillola ante-litteram del Viagra».
Tutto vero?
«No. Tutto falso! A quell’epoca avremmo avuto bisogno del bromuro, altro che il Viagra. Era un fantasista anche negli aneddoti, il Dottore».
Un gruppo di artisti come quelli del Derby non esisterà più, vero?
«Penso di sì. Eravamo amici, prima di tutto. Ci sono foto scattate al Gatullo, un locale milanese pre-Derby, nelle quali ritraggono tutti noi, io e Cochi, Enzo, Beppe Viola, Gaber, Sergio Endrigo e gli altri più giovani. E lì traspare l’affetto che avevamo tra noi».
Vero che Abatantuono era il figlio della cassiera del Derby?
«Sì. Ricordo questo ragazzino che viveva al Derby, sempre lì, curioso di nutrirsi delle nostre serate. Era di una generazione successiva alla nostra. Boldi era il batterista di un gruppo musicale. Teocoli un bravo cantante. Poi sono diventati tutti attori».
Il suo miglior amico, Cochi e Jannacci a parte?
«Paolo Villaggio. Mi dice sempre: Renato, sei l’amico che mi fa più ridere nonostante abbia 84 anni. Ci ha unito anche la buona cucina».
E Celentano? Ha girato un sacco di film insieme.
«Di Adriano ricordo i ritardi apocalittici sul set e la sua pigrizia. Stavamo ore ad attenderlo, lo avresti strozzato. Poi quando arrivava, mi abbracciava e diceva: scusa Renato, non lo faccio più. E la sua simpatia annacquava tutto».
Tra cabaret, tv, cinema e teatro a cosa si sente più legato?
«Io e Cochi ci siamo fatti conoscere fino ad arrivare alla trasmissione cult degli anni ’70: Canzonissima. Il top. Poi ci siamo dati al cinema dove il successo e i cachet erano maggiori. Oggi amo il teatro».
Un film di cui si è pentito e che non girerebbe, potendolo fare?
«Forse Le Comiche, proprio con Villaggio».
Il cabaret di oggi?
«È parecchio distante dal nostro. Segue tempi comici diversi ed è ritornato alla battute da avanspettacolo anni ’50. Parla di mogli da tradire, di corna, di barzellette».
Un passo indietro rispetto agli sketch di Cochi e Renato a  «Quelli della domenica» di fine anni ’60?
«Penso di sì. E poi noi eravamo una quindicina di comici in tutta Italia. Oggi uno sale su un palco e fa cabaret. Anche in politica».
E il cinema di oggi?
«Mi fido dei numeri e degli incassi: se Checco Zalone riempie le sale, ha ragione lui».
Ma a lei piace?
«Sa che non vado mai al cinema? Non ci sono mai andato. Non so il perché. Sono come quei tizi che non sono mai andati a pescare nella loro vita».
Cosa c’è nel futuro di Renato Pozzetto?
«Teatro con Cochi. E, spero, una fiction. Con Nino Frassica ho scritto una bella storia che abbiamo proposto alla Rai. Spero non finisca direttamente nel cestino di un direttore di rete».