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 2016  agosto 22 Lunedì calendario

«Se torno rischio la vita, cerco un visto». Lilesa, il maratoneta medaglia d’argento arrivato ai Giochi da etiope che vuole lasciarli da rifugiato

Dal pugno guantato del 1968 ai polsi incrociati del 2016. Feyisa Lilesa anima l’Olimpiade della protesta con una causa che gli cambia la vita. È arrivato ai Giochi da etiope, li lascia da rifugiato.
Il gesto che segna il suo futuro rappresenta la protesta Omoro, gruppo etnico del Paese africano bersagliato dal governo. Subiscono leggi discriminanti e negli ultimi mesi sono vittime di massacri: «Mille morti, centinaia di arresti, persone di cui si perdono le tracce. Molti membri della mia famiglia sono spariti, anche mio padre». La voce è ferma, quelle braccia incrociate di più. Lilesa le ha alzate all’arrivo della maratona chiusa con un argento che vuole usare come passaporto. La squadra dei rifugiati, che ha segnato questi Giochi, ha un atleta in più. La linea del traguardo disegnata al Sambodromo e anche quella di un confine: «Se tornassi a casa rischierei la vita, mi arresterebbero. Non posso neanche andare all’aeroporto, sarei bloccato lì». Il messaggio è chiaro, le idee sul futuro meno ma lui non cerca una via d’uscita, vuole una speranza.
Fatica e disperazione
Incrocia i pugni all’arrivo, sul podio, al Maracanà, incrocia i pugni davanti ai fotografi e poi ancora in faccia agli iPhone che si alzano a catturare il gesto simbolo. È lo stesso che si vede nelle manifestazioni per le strade di Addis Abeba, quello che i ragazzi come Feysa mostrano alle forze dell’ordine che li pesta a morte: «Se rientro mi uccidono, lo so». Si è portato il peso dell’azzardo per 42 chilometri e nonostante questo li ha corsi in 2 ore 9 minuti e 54, secondo dietro un kenyano strafavorito e imbattibile, Eliud Kipchoge, che non si è accorto della protesta e guarda il rivale chiamato a tracciare strade molto più faticose di quelle che ha appena percorso: «Resterò qui, chiederò aiuto, tenterò di avere un visto per l’America». In ogni singola parola che spreme dal suo difficoltoso inglese cerca la definizione di emergenza: «Vogliamo la pace. I Paesi occidentali appoggiano questo governo che ruba la terra e ammazza la gente. Perché?». E per la prima volta guarda in basso e tace. Sa che nessuno gli darà una risposta e lui non la vuole aspettare: «Siamo disperati, per questo sono pronto a ripetere il gesto all’infinito, ma non ho avvertito nessuno».
Il manager è italiano
Il suo manager italiano, Federico Rosa, conferma che la protesta è una sorpresa: «Gli parlerò, cercherò di capire». Lui è alle prese con un intricato caso giudiziario che lo coinvolge in Kenya. È stato arrestato con l’accusa di aver istigato al doping due atleti, sembra essere finito in mezzo a una disputa tra bande e il 28 agosto deve tornare a Nairobi per chiudere la vicenda. Non è la sola di cui si deve occupare, adesso. Sul circuito della maratona di Rio c’è anche Yonas Kinde, etiope pure lui, ma già scappato dall’orrore: è uno dei 10 rifugiati scelti dal Cio e dalle Nazioni Unite per rappresentare milioni di esuli: «Speriamo di ispirarli». Uno ha già trovato il coraggio di seguirli.