Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  agosto 22 Lunedì calendario

Sessanta centesimi di euro all’ora. Ecco le paghe di chi ci fa le scarpe


Estenuanti maratone di lavoro per poco più di 130 euro al mese, capannoni in cui d’estate si boccheggia per il caldo e d’inverno si trema per il gelo, diritti sindacali azzerati. Un lungo rapporto dell’associazione «Labour behind the label» (Il lavoro dietro l’etichetta), rilanciato ieri dal quotidiano britannico «Guardian», fa tremare i produttori delle scarpe che finiscono nelle vetrine dei negozi con i più prestigiosi dei marchi, quei made in Italy e made in Germany considerati le eccellenze dell’industria europea. 
I Paesi sotto la lente
Gli attivisti si sono concentrati su sei Paesi dell’Est: Albania, Bosnia, Macedonia – fuori dall’Unione europea – e su Polonia, Romania e Slovacchia. Hanno girato le fabbriche e interpellato gli operai, e il quadro è agghiacciante: paghe da 60, 80 centesimi di euro l’ora che non bastano a garantire i bisogni più essenziali, nessuna ispezione, salute minacciata dai veleni sprigionati dai macchinari. Eppure, denuncia «Labour behind the label», che è finanziata dalla Ue, è in quei magazzini che, negli anni, sono state assemblate le calzature per alcune aziende popolarissime: dalla spagnola Zara alla tedesca Deichmann, fino all’italiana Geox e alla svizzera Bata. Secondo la ricerca, il gruppo veneto fondato e presieduto da Mario Moretti Polegato si è appoggiato a una fabbrica macedone dove i dipendenti guadagnano 131 euro al mese, meno del salario minimo: 145 euro.
La replica di Geox
Interpellata, l’azienda replica che non produce più in Macedonia da tempo, e nei rapporti con i fornitori ha adottato un rigoroso codice etico. Soprattutto, spiega, la quasi totalità dei prodotti realizzati nell’Est esce dal polo di proprietà inaugurato a inizio 2016 a Vranje, in Serbia. Bata ha detto al «Guardian» che esigerà il rispetto delle regole da parte dei propri terzisti, Diechmann ha annunciato l’apertura di una indagine e Inditex, la «casa madre» di Zara, ha confermato di produrre piccole quantità in Albania e Romania, garantendo che sta lavorando sodo perché i salari minimi siano rispettati.
La triangolazione
Nel mirino dell’associazione c’è il sistema che permette di immettere sul mercato scarpe griffate made in Italy, oppure made in Germany, facendole produrre oltreconfine. Basta mandare i pezzi da assemblare in una delle «fabbriche ombra» che sorgono nell’Est, reimportare i prodotti finiti in patria dribblando i dazi, e poi farli viaggiare per il mondo con l’etichetta più prestigiosa. Nulla di troppo originale, è il cosiddetto “Perfezionamento Passivo” previsto dalle regole comunitarie, ma gli effetti, senza verifiche sulle condizioni di lavoro, rischiano di essere devastanti. Per i lavoratori, le economie dei Paesi coinvolti, le stesse imprese. «Quest’anno il caldo è insopportabile, siamo stati costretti a chiamare l’ambulanza sei volte» racconta un operaio protetto dall’anonimato. E le condizioni sono ancora più dure per le donne. Il report cita la terribile battuta di un supervisore italiano che continua a risuonare in testa a un lavoratore romeno: «Se continuano a svenire, saremo costretti a improvvisare un cimitero qui dietro». 
Mercato in crescita
L’inchiesta allunga ombre su uno dei mercati più brillanti d’Europa: nel 2014 sono stati prodotti 729 milioni di paia di scarpe. L’Italia, il simbolo dell’eleganza e della qualità, è la punta di diamante con una quota del 50%, seguita dalla Spagna (13%), dal Portogallo (12%) e dalla Romania (8,2%). Se i ritmi e la velocità richiesti dalla moda non permettono più le scorribande nel Far East, attacca Anna McMullen, una delle responsabili di «Labour behind the label», ecco allora la necessità di allestire grandi produzioni a pochi chilometri da casa. «Spesso quei lavoratori guadagnano un quarto di quanto sarebbe necessario per vivere. Made in Europe - dice – non significa fatto con dignità».