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 2016  agosto 22 Lunedì calendario

Ma Ram Lubhaya va trattenuto in carcere o no? Liti sulla giustizia tra reati ipotetici, buon senso delle procure e like su Facebook

Ram Lubhaya è un indiano di 43 anni senza permesso di soggiorno e con precedenti per droga fermato dai carabinieri per tentato sequestro di una bimba sul lungomare di Scoglitti, Ragusa. Detta così, ci sarebbero tutti i presupposti per buttare la chiave, almeno secondo la più diffusa sensibilità giuridica. E infatti due ruvidi custodi della sicurezza pubblica come Maurizio Gasparri e Roberto Calderoli si sono armati di indignazione e hanno sollecitato l’intervento riparatore del presidente della Repubblica, del ministro della Giustizia, del Consiglio superiore della magistratura e di qualche altra istituzione. Forse incoraggiati dalle immancabili e digrignanti sollevazioni dei social, si sono chiesti se sia questa giustizia. Da Ragusa il procuratore ha difeso la sua giovane pm sostenendo che, trattandosi di un «reato ipotetico», e cioè non consumato, la custodia cautelare non è contemplata.
Sarà senz’altro così. Oltretutto pare di capire che la vicenda non sia poi tanto chiara, ed è giusto augurarsi che Lubhaya sia innocente come si proclama, ma le perplessità rumorose di Gasparri e Calderoli non sono così infondate. L’Italia è un Paese che – purtroppo – ha fatto della detenzione in attesa di giudizio una consuetudine, spesso uno strumento di indagine, e ci siamo abituati a vederla applicata per reati molto meno gravi e allarmanti del tentato sequestro di persona. Ogni genitore convive con l’incubo che in un momento di distrazione gli si porta via un figlio, e questo spiega le reazioni, comprese quelle scomposte. E infine è piuttosto complicato apprezzare il dettaglio – Lubhaya ha tenuto con sé la bambina meno di un minuto – per il quale il sequestro è classificabile come tentato: dopo quanto tempo e in quali condizioni il sequestro si compie? Sono decisioni che hanno a che fare con la giurisprudenza, cioè i precedenti, e con l’eventuale buon senso delle procure. E però nessuno può sentire vicina ed efficace una giustizia che arresta per abusi d’ufficio e libera per tentati sequestri.
Detto tutto questo, va aggiunto che stare dalla parte dei cittadini, coglierne gli umori e le preoccupazioni, non deve diventare un modo per corteggiarli e trasformarli in elettori. Montare su ogni reazione istantanea e viscerale e metterci il carico non è buona politica. E non è buona politica trascurare che spesso le decisioni della magistratura, comprese le più contestabili, sono prese sulla base di leggi scritte dagli eletti; se gli spazi di interpretazione sono così ampi è perché i testi non sono precisi, e sappiamo come nascono in Parlamento, prodotto di dibattiti ideologici e sterili o di sfinenti compromessi. Lo si vede quando vengono arrestati presunti o potenziali terroristi islamici rapidamente liberati dal primo giudice in cui si imbattono: li si ferma in forza della nuova legge antiterrorismo che – per non farla tanto lunga – assomiglia a un autentico processo alle intenzioni. Basta augurarsi su Facebook di vedere San Pietro saltare in aria per rischiare le manette. È chiaro che giustificare una detenzione preventiva o imbastire un processo su presupposti così friabili è difficile, specialmente in uno Stato di diritto. Eppure l’indomani si scatenano polemiche furiose e improduttive che non servono ad aiutare i magistrati, ma a raccogliere un buon numero di like sui profili on line.