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 2016  agosto 22 Lunedì calendario

Pascoli e le sorelle, uno strano ménage coniugale

No, mia dolce Mariú, non sono sereno. Questo è l’anno terribile, dell’anno terribile questo è il mese più terribile. Non sono sereno: sono disperato. Io amo disperatamente angosciosamente la mia famigliola che da tredici anni, virtualmente, mi sono fatta e che ora si disfà, per sempre». È la voce di Giovanni Pascoli, che in una lettera del 20 giugno 1895 scrive così da Roma alla sorella Maria dopo che la maggiore, Ida, lasciandosi alle spalle anni di vita a tre, ha abbandonato il «bel nido» faticosamente costruito dal poeta, per convolare a nozze con Salvatore Berti. Fu per lui un tradimento. 
Non c’è personalità più complessa. «Sono pochi i poeti così limpidi e così, nel contempo, misteriosi e inafferrabili», ha scritto Elio Gioanola. Secondo il critico, l’epicentro della vita emotiva di Pascoli fu l’assassinio del padre Ruggero, avvenuto il 10 agosto 1867: non per ragioni sentimentali, ma perché Giovannino quella morte l’aveva inconsciamente desiderata al punto da sentirsene poi il vero colpevole, maturando in sé l’angoscia e l’ossessione del parricida. 
Pascoli cercherà di rimediare alla dissoluzione della famiglia originaria (mamma Caterina era defunta nel 1862) e al «parricidio» costruendo una vita coniugale con le due sorelle da poco uscite di convento, lui appena laureato: un sogno, una fantasia. Cesare Garboli, autore di un libro fondamentale sulle trenta poesie familiari pascoliane, allude a un rapporto incestuoso. Un incesto casto? Una perversione sublimata? Fatto sta che Giovannino sarà insieme, per Ida e Mariù, fratello, padre, figlio, sposo, e loro per Giovannino reciteranno anche il ruolo di figlie, madri, spose. Lui «voleva due colombelle, vederle, toccarle, e voleva la reginella che sfaccendasse per casa». Voleva nel contempo la vecchia famiglia d’origine e una famiglia nuova, sua. Nei primi anni, dal 1885, la casa di Massa è un luogo gioioso e spensierato con i due «angioli ambrosii», la bionda solare e allegra, la bruna pensosa, «i labbrini bianchi e la faccia terrea». 
Sarà Maria a raccontare le memorie del «nido», mettendo in campo le lettere private che Giovannino inviò dalle sue diverse trasferte. E sono lettere appassionate, come di un amante prima felice, poi deluso anzi disperato. Chiama le due sorelle con molteplici diminutivi: «compagnine», «sorelline», «mammine», «anime adorate», «angioline mie belle». Pascoli è inseparabile dalla famiglia, anche quando è lontano: rimane attaccato alle sorelline «come una cozza allo scoglio», secondo Garboli. Non mancano però le contraddizioni. Da una parte assicura: «Io ti amo ora e sempre, Mariù. Io sento che un amore come il tuo d’angiolo e di santa dovrebbe bastare a cento vite», dall’altra il 2 giugno 1895, quando ormai sa che il «pasticcio a tre» è destinato a finire, scrive a Ida da Bologna per scaricarle la sorella: «Ti confesso che non me la sento più di tenere con me la mia povera Mariuccina. La faccio soffrir troppo e anch’essa fa soffrir me». Poi, non appena Mariù, ignara di tutto, raggiunge il fratello, si vede accogliere con tutta la tenerezza e la commozione: «Mi baciò tanto tanto! Io ero al colmo della gioia», è il ricordo. E saranno lacrime e baci anche quando tocca a Ida accorrere al capezzale dell’«anima scompigliata» fraterna. Il nido d’amore, sublimato nelle poesie, a questo punto si trasfigura: Ida va per la sua strada e Maria «prende finalmente possesso del fratello, ma cambiando ruolo, declassandosi a serva e cane fedele».
L’«abisso d’amore» per le due sorelle diventa un ribollire di dolcezze e crudeltà, baci e pugni nello stomaco, carezze e maledizioni, lacrime e alcol: sotto la giurisdizione di Maria, la vita di Pascoli diventa un coagulo di sacrificio e vittimismo. Dall’esilio messinese scriverà a Ida, ormai perduta, come per mettere il dito nella piaga ancora aperta: «Ti prego di pensare a chi sta peggio di te, a chi qualche volta, per esempio, a Messina, levandosi dal letto, stanco, addolorato, con la testa vacillante, si augura spesso, sin dalla mattina, di morire!». Ma poi, soffermandosi con un amico sul soggiorno messinese, ricorderà: «Io ci ho passato i cinque anni migliori, più operosi, più lieti, più raccolti, più raggianti di visioni, più sonanti d’armonie della mia vita».