Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  agosto 22 Lunedì calendario

Tre storie di foreign fighters contro l’Isis

È ormai noto a tutti il fenomeno sinistro di emigrazione dei foreign fighters, i giovani europei che a migliaia si muovono verso il Medio Oriente, la Siria in particolare, per votare la propria esistenza alla jihad e accrescere così le fila dello Stato Islamico. Si tratta di un’ambizione che i singoli covano spesso in segreto, ispirati dai sermoni sfacciati uditi in qualche moschea o anche solo dal proprio odio incondizionato verso il sistema, un odio che ha finalmente la possibilità di incarnarsi nell’azione.
Assai meno pubblicizzato, invece, è il contromovimento di resistenza che l’avanzata nera di Isis ha provocato come effetto collaterale: altri foreign fighters – non è ancora stato coniato un termine per distinguerli dai loro nemici – che viaggiano verso lo stesso fronte di guerra per contrastare il Califfato. Su di loro si concentra il documentario di Benedetta Argentieri, Bruno Chiaravalloti e Claudio Jampaglia, Our War, che il 9 settembre sarà presentato al Festival del Cinema di Venezia. Il film raccoglie le testimonianze di tre combattenti – un italiano, uno svedese e uno statunitense – arruolatisi nell’esercito dello YPG, l’Unità di Protezione Popolare curda, e impegnati per mesi negli scontri a fuoco in Rojava, la porzione siriana del Kurdistan.
Per lungo tempo la causa curda non ha goduto di grande popolarità. È stata relegata a certi collettivi di stampo comunista, ai centri sociali e a una manciata di organizzazioni umanitarie. Lo stesso YPG, sostenuto oggi dai raid statunitensi, è imparentato con il PKK, il partito curdo della Turchia, catalogato ufficialmente come «terroristico» dalla Nato. Ma l’insorgenza di Isis ha stravolto molti degli equilibri costituiti, trasformato nemici in alleati e viceversa: quasi accidentalmente ci ha mostrato che la lotta dei curdi aveva alcuni scopi in comune con i nostri. All’improvviso ci siamo scoperti solidali, abbiamo seguito con apprensione l’assedio di Kobane quindi, pieni di speranza, la controffensiva di YPG e YPJ fino ai pressi di Raqqa, il cuore di tenebra dello Stato Islamico. Nel presente, si sa, è difficile schierarsi con sicurezza, discernere la verità, ma i tre protagonisti di Our War hanno avuto meno tentennamenti della politica internazionale, hanno avvertito la convergenza di intenti con il popolo curdo con un’intensità sfrenata, tanto da riempire i propri bagagli e partire, decisi a combattere una guerra che avrebbe fatto anche a meno di loro.
Non è un genere di slancio inedito. Migliaia di guerrieri provenienti da tutta l’Europa, ma anche dall’Africa e dalle Americhe, confluirono nella Spagna divisa per unirsi alla lotta contro il regime franchista. È storia da sussidiario ormai e oggi siamo pressoché concordi nel considerarli degli eroi. L’accostamento tra i foreign fighters «alla rovescia» e le Brigate Internazionali potrebbe provocare l’irritazione di alcuni, ma i combattenti di Our War non hanno dubbi al riguardo: chi nel 1936 partiva per Madrid, oggi si dirigerebbe verso il Rojava. La minaccia è la medesima, lo spirito identico. È Karim Franceschi, l’italiano dei tre intervistati, a suggerire il parallelismo con la Spagna e anche con i partigiani. Trova in essi i propri antecedenti nobili, così come loro si richiamavano al Risorgimento, secondo una filogenesi ininterrotta di idealismo.
In noi che guardiamo il documentario e ascoltiamo parlare Karim, Joshua e Rafael, affiorano tuttavia dei dubbi. Percepiamo fin dall’inizio qualcosa di dissonante nella convinzione ferrea di questi combattenti, il mescolarsi pericoloso di ragioni strettamente personali a quelle universali che professano. Si ha l’impressione che Joshua, deluso dall’esperienza nei Marines e incapace di reintegrarsi nella vita civile dopo le ripetute missioni in Iraq, sarebbe andato a cercare la guerra dovunque e comunque, pur di imbracciare un’arma e sparare ancora. Si ha il timore che nel sangue di Rafael, di origini curdo-irachene ma cittadino dell’algida Svezia, ribolla la stessa inquietudine da «terza generazione» che ha sobillato la fantasia orribile di molti attentatori islamici. E ci fanno quasi sorridere le distinzioni manichee e l’utopia socialista di Karim, se non fosse per il loro accostamento alle sequenze degli scontri di Kobane, al racconto della prima volta in cui si spara a qualcuno.
Karim ha 27 anni, Rafael 28, Joshua 30. Ostentano convinzione, ma la loro insicurezza riempie ogni inquadratura. Tutti e tre vacillano sulla tagliente linea d’ombra conradiana. È quella l’età delle vocazioni infatti, quando si può essere investiti dallo sdegno e da un coraggio semidivino; è l’età nella quale possono accadere di quei momenti, «voglio dire momenti in cui chi è ancora giovane si trova a commettere azioni avventate – scriveva Conrad —, come ad esempio sposarsi all’improvviso o abbandonare senza motivo un posto di lavoro». Oppure arruolarsi nell’Unità di Protezione Popolare curda.
Our War, la nostra guerra. Ma «nostra» di chi? Non compare il punto interrogativo nel titolo scelto dai registi, ma al termine del documentario siamo pronti ad aggiungerlo noi spettatori. Questi ragazzi sono soltanto degli espulsi in cerca di un senso più alto per se stessi oppure sono i futuri eroi di domani, coloro che i nostri pronipoti ringrazieranno di avere preservato la libertà? La loro guerra è la nostra guerra? Anche i curdi hanno i loro shahid, gli eroi martiri, dice Joshua, non li attende un paradiso di vergini, ma verrà loro tributata gloria in eterno dagli uomini e a ognuno sarà dedicata una strada nello Stato democratico che verrà. Our War non prende posizione su tutto ciò, si limita a illustrare, ma una certezza ce la lascia comunque: laddove i poteri costituiti si dimostrano inefficaci, trova spazio l’iniziativa personale. E da quella si possono pretendere audacia e sprezzo del pericolo, ma soltanto in casi molto rari anche altrettanta lungimiranza.