Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  agosto 04 Giovedì calendario

Il Tagikistan vuole multare i giornalisti che usano parole difficili. Ma, soprattutto, impone che scrivano bene del governo

A dover scriver chiaro sono i colleghi del Tagikistan. «In alcuni articoli si trovano fino a dieci parole che i lettori normali non arrivano a comprendere. Questo è un grossolano attentato alla lingua del nostro paese», avverte Gawhar Scharifsoda, presidente del comitato per la tutela della lingua. Le parole straniere sono tabù, a meno che non esista un equivalente in tagico.
Un gruppo di esperti si metterà subito al lavoro a Duschanbe, o Dusanbe, capitale del Tagikistan, repubblica dell’Asia Centrale, vasta circa metà dell’Italia con 7,5 milioni di abitanti. Verranno controllati non solo quotidiani e periodici ma anche trasmissioni radio e televisive. Per chi usa troppe espressioni gergali o parole straniere incombe una multa fino a 180 euro. È una notizia che avrebbe reso felice Giulio De Benedetti, mitico direttore della Stampa, che minacciava (giustamente) di licenziarmi se avessi osato scrivere tre genitivi di seguito. Il nostro giornale deve essere letto anche dalle portinaie, avvertiva. E costringeva i colleghi dello sport, a Torino, a scrivere «i bianconeri della Juventus hanno vinto la partita di calcio». Non tutti sono obbligati a conoscere i colori della Vecchia signora. E non era facile seguire le regole per noi al desk degli esteri, costretti a spiegare ogni particolare, in un tempo in cui non esistevano internet e Wikipedia. Qual è il nome di battesimo del ministro degli esteri della Finlandia? E così via. Naturalmente, anche il termine «desk» sarebbe stato proibito.
A De Benedetti seguì Alberto Ronchey, che usava una parola straniera a riga. Quanti sanno che «pribyl», termine da lui amato, vuol dire profitto in russo? Ronchey spiegava che i suoi articoli di fondo non venivano letti delle portinaie piemontesi ma dai 200 che contano a Roma. Forse anche loro non conoscevano (e non conoscono) il russo. Colpa loro. E dovevamo usare il genere della lingua originale. Ad esempio, scrivere la Volga e non il Volga. Giusto, ma rischiai di rendermi antipatico, quando gli risposi: «Allora scriviamo “la” Belgio, la Belgique?» Ronchey aveva fair-play, altra parola che De Benedetti avrebbe cancellato, e mi perdonò.
Naturalmente, la notizia che giunge da Duschanbe appare divertente, in realtà è un ennesimo attacco alla libertà di stampa da parte del presidente Emomali Rahmon, al potere dal 1994 che, come il turco Erdogan, non ama molto i giornalisti, comunque scrivano. Secondo Reporter senza frontiere, il Tagikistan occupa la 150esima posizione su 180 nella classifica che valuta la libertà di opinione. Ormai Rahmon controlla quasi tutti i media, costretti a elogiare ogni giorno le sue virtù. Su 300 testate, 200 sono di proprietà privata, la loro uscita è saltuaria, e comunque non osano criticare l’attività del governo. I giornalisti indipendenti vengono esclusi dalle conferenze stampa, se osano svolgere ricerche su temi scottanti rischiano l’arresto e le violenze dei poliziotti. Evidentemente, il paladino della lingua tagica, simile al farsi persiano, Gawhar Scharifsoda, non si preoccupa dello stile giornalistico, ma teme che in qualche termine di difficile comprensione, anche per lui, si possa annidare un’occulta critica a Rahmon.