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 2016  agosto 04 Giovedì calendario

Metti Belmondo al Lido di Venezia

Jean-Paul Belmondo al telefono esordisce con una risata, e sembra di vedere il suo volto da magnifico avventuriero, generoso e guascone. «Questo premio rappresenta un grande onore per me. Soprattutto perché si tratta di un premio italiano. Non sono mai stato alla Mostra di Venezia, sarà la mia prima volta. E ci andrò per un’occasione importante». Riconoscente con un Paese che considera «la mia seconda patria, nel 2008 ho fatto il remake di Umberto D, una meditazione su vecchiaia e solitudine, mi identificai nella storia di quell’uomo aggrappato al suo cane, accettando il film a una condizione: dovevano filmarmi come ero, senza controfigure». Gentile, ma quando parla è asciutto come un giunco, perché la salute non gli ha fatto sconti (nel 2001 fu colpito da un ictus mentre era in vacanza in Corsica).
A Venezia da quest’anno i Leoni d’oro alla carriera sono due: tocca al regista Jerzy Skolimowski e a lui, Belmondo, 83 anni, un nome che rimanda al grande cinema degli Anni 60 e 70 e a tutto quello che c’era intorno: Saint-Tropez, gli Ippodromi, le partite di Polo, i sigari, le auto sportive, le discoteche, le belle donne innamorate di lui, le scazzottate.
Film di gangster e poliziotti, le sparatorie e gli inseguimenti tra le strade di Marsiglia, gli abiti gessati, il naso lavorato dalla boxe («una grande scuola per misurarsi col pubblico»), il glamour di bulli e pupe, l’energia e il fascino di un acrobata del cuore.
«Quale era il segreto di quella grande stagione cinematografica, sia in Francia che in Italia? I registi. Che oggi mancano un po’. Ecco, questa è la differenza».
Dici Belmondo e d’istinto lo associ ad Alain Delon. L’amico, il rivale, la lite ai tempi di Borsalino... «La verità è che siamo grandi amici. È la stampa ha montato un caso. Ma siamo sempre stati amici, nel bene e nel male».
In Italia ha conosciuto due tra le donne più importanti della sua vita: Ursula Andress, che lasciò per Laura Antonelli, un amore randagio, nove anni di slanci e liti furibonde. È rimasto sorpreso dalla piega che prese la vita della Antonelli, la conversione quasi mistica, la scelta di vivere come una eremita? «Bé sì... Riservo a lei un pensiero profondo. Laura era un’attrice formidabile. Mi è dispiaciuto molto che sia morta nella miseria. Non stavamo più insieme da tanti anni ma questo non vuol dire niente».
Un’anomala traiettoria artistica, quella di Belmondo: ha fatto blockbuster, però nasce nell’autorialità della Nouvelle Vague: «Ne ero il simbolo grazie a Fino all’ultimo respiro di Godard. Fu quel personaggio a darmi un’aria da eroe. Ma io non mi ci sono mai sentito».
Però ha dovuto combattere anche con i pregiudizi dei produttori. «All’inizio dicevano che non avevo un volto da seduttore. Tutto cambiò dopo il film di Godard. Ma se fossi rimasto fermo al personaggio di quel film, avrei allontanato il pubblico. In ogni progetto ho cercato di portare qualcosa di nuovo». A Hollywood non è mai andato. «Ci sono stato in vacanza. Mi hanno proposto film che ho rifiutato. Ho preferito restare chez moi».
Registi con cui avrebbe voluto lavorare? «Ho 83 anni. Mi sento bene dove sono in questo momento, in campagna e al sole». Non dà l’idea di avere rimpianti. «Infatti non ne ho. Ho avuto una bella carriera, mi sono divertito come un matto e cerco di non dimenticare mai da dove sono venuto. Alcuni film hanno avuto successo, altri non l’hanno avuto. Ma questa è la vita». Così parla Belmondo detto Bebel, un soprannome nato da un malinteso, una storpiatura: gli amici lo chiamavano Pépé come Jean Gabin delinquente in Pépé-le-Moko. È caduto e si è rialzato tante volte. La malattia lo ha provato. Ma è lucido, ironico. E a Venezia si riprenderà la scena.