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 2016  agosto 04 Giovedì calendario

Cosa sappiamo del siriano arrestato a Genova

Mahmoud vestiva solo la djellaba bianca. In macchina recitava ossessivamente i versi del Corano. Registrava la sua voce con il cellulare, inviava i precetti del Profeta attraverso WhatsApp al «Forum dei salafiti in Siria». Comunicava in questo modo anche con l’imam genovese di piazza Durazzo Breshta Bledar. Criticava «l’attendismo» dei fratelli e parlava dello «spargimento di sangue sciita in Iran». Ma soprattutto Mahmoud Jrad, 23 anni a settembre, siriano, da 8 anni residente a Varese, voleva diventare un combattente.
Raggiungere la città siriana di Idlib, nel nord-ovest del Paese, martoriata dai bombardamenti. Partire, arruolarsi non tra i soldati del Califfato, ma nelle fila di Al-Nusra, organizzazione terroristica affiliata ad al Qaeda, che controlla la regione. Aveva organizzato tutto: un furgone, traghetto da Ancona per la Grecia, visti per la Turchia. Lo hanno fermato solo le indagini della Digos di Genova che, insieme ai colleghi di Varese, hanno arrestato il giovane con l’accusa di essersi arruolato nel gruppo terroristico di al-Nusra (articolo 270 bis e quater). Con lui sono ora indagati lo stesso imam albanese Brestha Bledar, 36 anni, Alia Rakip, 37 anni, anche lui albanese e imam della moschea di vico Amandorla, il marocchino Maji Mohamed, 33 anni, imam a Rapallo.
L’indagine ha fatto emergere una rete genovese di reclutamento al jihad che vede proprio l’imam Bledar, già emerso in una inchiesta su tre libici sospettati di appartenere ad Isis, come figura chiave. Al centro personaggi e luoghi che hanno fatto da sfondo alla vicenda di Giuliano Delnevo, il foreign fighter morto in Siria nel 2013. Nelle cinque pagine del decreto di fermo firmato dal pm genovese Federico Manotti e nelle informative della polizia, c’è la storia umana di Mahmoud Jrad e il disperato tentativo dei familiari di impedirgli di raggiungere il fronte.
Jrad era arrivato in Italia nel 2008 insieme al fratello minore Abdulwareth. Aveva raggiunto il padre Ghiyas, 46 anni, saldatore ora disoccupato, e gli altri 7 fratelli nell’appartamento al primo piano di un palazzo popolare di via Tarvisio 30/2 a Varese. Diploma di elettricista, pochi lavori e con poca voglia. Poi ha iniziato a frequentare il centro di preghiera di Varese e ha lasciato gli abiti occidentali per la tradizionale veste araba. «Gli dicevo: “preghi troppo, vai in moschea due volte al giorno. Prega, ma pensa a trovare anche un lavoro”», racconta il padre. «Non è un terrorista, voleva andare in Siria per incontrare sua moglie. Si è sposato l’anno scorso».
Le carte raccontano una realtà molto diversa. Il 31 maggio i genitori discutono: «Sta andando a morire». Chiedono aiuto all’imam (moderato) di Varese: «Non devi contattare i gruppi che uccidono le persone», si raccomanda lui al ragazzo. Marito e moglie cercano di fermarlo in tutti i modi: «Cosa possiamo fare? Mi chiamano persone per dire di fare attenzione a tuo figlio. Possiamo tenerlo in casa e non farlo uscire? Lo rinchiudiamo, lo teniamo chiuso con noi». Alla fine, Jrad riesce a organizzare il viaggio, si sospetta con l’aiuto degli imam genovesi conosciuti mentre si trovava in Liguria per lavorare come manovale. «Vessava i colleghi, li riteneva cattivi musulmani». Con lui doveva partire anche il fratello Abdulwareth (ora indagato). La famiglia sperava che il fratello («angelo custode») riuscisse ad impedirgli di arruolarsi. L’estremo tentativo per fermare il desiderio di martirio: «La mia vita è questa, abbi fiducia in Dio, andremo a fare il jihad».