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 2016  agosto 03 Mercoledì calendario

Le donne di Salò – quelle responsabili di delitti, stragi e torture – che neppure dieci anni dopo diventarono delle povere vittime (e se la cavarono a buon mercato)

Questo libro di Cecilia Nubola, Fasciste di Salò, pubblicato da Laterza, non è soltanto la storia ben documentata della vita e delle scelte criminali di una quarantina di donne che dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 aderirono alla Repubblica di Mussolini. L’autrice, studiosa di storia sociale e di storia della giustizia, analizza le carte processuali, le sentenze, le istruttorie, i documenti dei carabinieri, le lettere delle condannate, dei familiari, le raccomandazioni dei politici. Il saggio ha per sottotitolo Una storia giudiziaria. Ma è assai di più, un test impressionante, un’angosciante storia degli italiani, del loro carattere, della loro mancanza di senso dello Stato.
Dopo la Liberazione l’Italia avrebbe dovuto e potuto esser nuova, espressione della Costituzione della Repubblica costata sangue e dolore a chi, una minoranza certo, disse no al fascismo e a quanti sulle montagne si batterono contro i nazisti e i fascisti, un momento di dignità e di riscatto.
Che cosa è accaduto a quelle donne responsabili di efferati delitti, stragi, torture, saccheggi, ignobili cacciatrici di ebrei, spie dei compaesani della casa accanto, nei villaggi più che nelle città, ladre, avide di soldi e di beni? Diventarono, neppure dieci anni dopo, ma anche assai prima, vittime, perseguitate politiche e se la cavarono a buon mercato. Qualcuna, come Adriana Paoli di cui l’autrice scrive nelle ultime pagine del libro, condannata a trent’anni per collaborazionismo e per concorso in omicidio volontario plurimo, restò in carcere sette mesi in tutto. E colpiscono le lettere dei figli della Paoli, scritte certamente da avvocati che avevano ben captato il respiro del tempo – gli anni Cinquanta – inviate al guardasigilli Aldo Moro. Lettere colme di buoni sentimenti, «religione e famiglia», «la sua squisita bontà cristiana», il suo «cuore di padre»: «Nella vostra diuturna fatica vi seguiranno le preghiere che ogni sera rivolgiamo alla Beata Vergine affinché vi dia sempre forza nell’operare nell’interesse del nostro popolo».
Il «vento del Nord» aveva smesso da tempo di soffiare. La Guerra fredda nel mondo e, qui da noi, il qualunquismo, il centrismo democristiano, la Chiesa di Pio XII e delle Madonne Pellegrine, la sconfitta delle sinistre nel 1948, la rimozione del passato, il revanscismo, l’eterno italico vogliamoci bene, l’anticomunismo che sanava ogni male e ogni memoria e anche la necessità di creare il barlume di un’idea di nazione, fecero resuscitare la vecchia Italia delle compromissioni e dell’ambiguità. Il Movimento sociale nascente, tra l’altro, si ispirava all’esperienza di Salò più che al fascismo del ventennio.
Nell’autunno del 1943 non erano state poche le ragazze che si erano arruolate nelle formazioni saloine, la X Mas, la Gnr e poi le Brigate nere. Nacque il Saf, il Servizio ausiliario femminile; nel 1945 contava 6.000 soldatesse. Tra loro chi credeva sinceramente nella rinascita del fascismo dopo il tradimento del re. Ma a prevalere furono le donne che giocavano alla guerra in pantaloni e mitra. L’ambizione era di prender parte al conflitto civile: combattere doveva essere «strumento di emancipazione e di partecipazione alla vita della patria», scrive la Nubola. E l’arruolamento era anche un giudizio negativo nei confronti degli uomini, «vigliacchi, privi di onore, non all’altezza del momento storico».
Dai quaranta casi processuali presi in esame risulta che l’amor di patria era il più delle volte una retorica fantasia. Fasciste di Salò è anche un libro di psicologia criminale, il tentativo di capire, al di là di ogni implicito giudizio morale, le ragioni di tanti comportamenti aberranti. Persino in guerra, infatti, possono essere rispettate certe regole che, nelle vicende raccontate, vanno invece alla ventura. Sono terrificanti i delitti per cui le donne repubblichine, spesso in divisa tedesca, armate, furono condannate. L’atrocità, difficile da ricordare, nei confronti dei partigiani prigionieri, il godere delle loro sofferenze, le torture, l’avidità di denaro, la crudeltà belluina e compiaciuta, il clima delle Ville Tristi dove le donne ebbero una funzione non secondaria, la delazione come regola, l’inimmaginabile ferocia, la naturalezza con cui indicavano ai nazisti gli antifascisti da catturare e da uccidere.
Un episodio: «La Barocci (una fascista marchigiana, condannata a morte, amnistiata, assolta) e altri camerati condussero il militare (un soldato sardo sbandato) nello spiazzo retrostante la caserma della Gnr e lo costrinsero a correre intorno al largo cratere di una bomba, finché cadde esausto. Allora lo fucilarono e lo seppellirono in quella stessa buca coprendolo sommariamente, tanto che una mano del soldato affiorava dalla terra».
Giustizia non è stata fatta. Il maresciallo Graziani, comandante dell’esercito di Salò, condannato a 19 anni di carcere da un tribunale militare, usufruì di un condono che gli diede la libertà tre mesi dopo la sentenza. Junio Valerio Borghese, a capo della X Mas, imputato di responsabilità dirette in 43 omicidi, fu condannato a 12 anni di carcere, ma ottenne immediatamente la libertà.
L’amnistia del guardasigilli Togliatti, del 22 giugno 1946, motivata dalla «necessità della riconciliazione e della pacificazione di tutti i buoni italiani» fu rovinosa. Le amnistie, gli indulti, le grazie concesse furono una catena. La legge del 18 dicembre 1953, la liberazione condizionale ai condannati per reati politici indipendentemente dalla pena espiata o da espiare, per semplice iniziativa del guardasigilli, mise la parola fine a quel disturbante problema dei collaborazionisti con il tedesco invasore e dei loro delitti.
Il perdonismo ha vinto. L’idea di giustizia e libertà è stata sconfitta. Un equilibrio e una misura nel giudizio e nell’agire avrebbe contribuito a render più credibile la Repubblica, creando nei cittadini fiducia nella legge e nella giustizia, oltre che nella politica.