Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  luglio 28 Giovedì calendario

Scalfari ricorda oggi quell’incontro con Berlinguer

«Fu la più importante delle mie interviste a Berlinguer», ricorda Eugenio Scalfari 35 anni dopo. «Per la prima volta il segretario del Pci chiarì cos’era “la questione morale”: non la presenza di ladri e corrotti nelle alte sfere della politica o dell’amministrazione pubblica, ma l’occupazione sistematica dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti». È il 26 luglio del 1981, l’anno del ritrovamento degli elenchi della P2 – la loggia segreta del grande ragno Licio Gelli – e dell’arresto di Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano. Il clima pubblico italiano inclina a tonalità lugubri. Il direttore di Repubblica va a trovare Berlinguer nella sua stanza a Botteghe Oscure. Tre ore e mezza di conversazione alla presenza dell’immancabile Tonino Tatò, principale collaboratore del segretario. Due giorni dopo esce l’intervista destinata a entrare nei manuali di storia.
Direttore, ti aspettavi l’aspra requisitoria di Berlinguer?
«Feci in modo che venisse fuori. Non era la prima volta che il nostro giornale affrontava la questione morale, gli antecedenti risalivano a prima della fondazione di Repubblica, all’Espresso e alle sue campagne. Ma era la prima volta che Berlinguer affrontava la questione da un punto di vista inedito».
Quale fu la novità?
«Il rimprovero mosso ai partiti di essere diventati macchine di potere e di clientela, totalmente estranei ai problemi reali della società. In sostanza, Berlinguer non accusò la classe politica italiana di non aver integrato il Pci nel sistema, anzi il contrario: mi disse che ai tempi della solidarietà nazionale ci avevano provato in molti modi, offrendo ai comunisti poltrone di sottogoverno, banche, enti, insomma un posto importante nel banchetto. Ma era proprio quello che Berlinguer voleva combattere: l’occupazione dello Stato da parte dei partiti».
La sua requisitoria fu meticolosa.
«Denunciò la presenza dei partiti in ogni articolazione dello Stato e delle istituzioni, negli enti locali e negli enti di previdenza, nelle banche, nelle aziende pubbliche, negli istituti culturali, negli ospedali, nelle università e dentro la Rai. Che cosa era grave? Il compito dello Stato è quello di salvaguardare l’interesse generale, difendendo soprattutto i più deboli e gli esclusi, mentre la logica della lottizzazione porta ad agire nell’interesse del partito, della corrente o del clan di appartenenza. Berlinguer lo disse espressamente: un credito bancario viene concesso se procura vantaggi di clientela, un appalto viene aggiudicato se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito. Dipinse con molta amarezza una situazione drammatica, che per diversi aspetti esiste ancora».
Come procedette l’intervista? A proposito di altre interviste importanti, hai raccontato di aver scritto non solo quello che il tuo intervistatore ti aveva detto, ma anche quello che aveva pensato senza dirtelo.
«No, nel caso di Berlinguer trascrissi fedelmente la conversazione. Non ho usato il registratore, non lo uso mai perché preferisco prendere qualche appunto. Ricordo che lo incalzai molto sulla questione morale perché mi sembrava il nodo essenziale. E a rileggerla oggi mi sembra un’intervista che cresce su se stessa, attraverso una nostra interlocuzione che alterna qualche dissenso e grande sintonia».
Berlinguer volle rileggerla?
«Sì, tramite Tatò. L’intervista era molto lunga, trattava molti temi, ma a lui interessava solo la questione morale. Così chiese a Tatò se su quel punto specifico avessi riportato correttamente la sua opinione. Una volta rassicurato, diede l’assenso».
L’intervista sollevò polemiche anche dentro il Pci. Napolitano accusò Berlinguer di essersi lasciato andare a un atteggiamento di “pura denuncia”, poco costruttivo.
«Giorgio era “migliorista”, ossia favorevole al dialogo con il partito di Craxi. E Berlinguer non era stato certo tenero con i socialisti, accusati insieme ai democristiani di aver occupato lo Stato per interessi lontani dal bene comune».
Tu con il segretario del Pci avevi buoni rapporti.
«Berlinguer guardava con simpatia a un giornale di editori puri. E non a caso nel corso del nostro incontro denunciò il pericolo che il Corriere della sera cadesse in mano ai partiti, insomma facesse parte della spartizione. Devo aggiungere che tra noi esisteva anche un rapporto privato. Capitava che ci incontrassimo a cena a casa di Tatò. Non c’era una grande intimità, ma ci davamo del tu».
Lui segretario del più grande partito comunista d’occidente, tu liberal di sinistra. Cosa vi univa?
«Mi piacevano le sue idee, la questione morale innanzitutto. Il Pci era davvero un partito diverso dagli altri partiti comunisti e già allora stava maturando il suo strappo dall’Urss, anche se ufficialmente sarebbe arrivato proprio alla fine di quello stesso anno, dopo il colpo di Stato di Jaruzelski».
Berlinguer è stato uno dei pochi politici per cui hai pianto.
«Sì, quando fu colpito a Padova da emorragia cerebrale andai a Botteghe Oscure. Ero addolorato, confuso. E quando Ingrao mi salutò con il braccio teso, di chi non sollecita vicinanza fisica, mi aggrappai al suo collo scosso dai singhiozzi. Lui dovette considerarla una mancanza di dignità, così cercava di scuotermi: su Eugenio, calmati. Ma io continuavo a piangere senza ritegno. Gli dissi che la morte di Berlinguer sarebbe stata una perdita per il partito, ma soprattutto una perdita per la democrazia».
Berlinguer auspicava che i partiti si ritirassero dallo Stato. Il suo appello non solo non è stato ascoltato ma se è possibile in questi trentacinque anni la situazione è ulteriormente degenerata.
«Sì, la terapia indicata da Berlinguer non è stata seguita. E il malanno diagnosticato è addirittura peggiorato, coinvolgendo anche il Partito democratico. La diversità della sinistra è caduta da tempo, e le tentazioni e le occasioni proliferano sia a destra che a sinistra. Naturalmente è cambiato in modo radicale il contesto. Oggi esiste una questione europea in termini diversi da come si poneva allora. Ed esiste una società globale che impone una diversa velocità nelle decisioni. Per questo noi ci avviamo verso un regime parlamentare monocamerale. Ma perché funzioni in modo realmente democratico, non deve essere un regime parlamentare di “nominati” o “preferiti”: per questo diventa importante la legge elettorale».
Qual è la relazione con la questione morale?
«Il Parlamento deve essere in grado di controllare il potere esecutivo. Altrimenti è in pericolo la democrazia».