Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  luglio 28 Giovedì calendario

E la marmellata di salame portata dai soldati di Murat in Calabria divenne la ’nduja

Nella grande fame dell’inverno del 1809 nei paesini del vibonese s’erano ridotti a mangiare pane ricavato dalla farina di carrube. Quando carrube non se ne trovarono più, toccò quello amaro e asprigno delle ghiande, prima lasciate libere ai maiali. Persino mastro Gino s’era dovuto adattare – la miseria non conduceva più i passi di clienti nella sua sartoria – sebbene lui avesse la risorsa dei granchi che catturava alla fiumara. E che arrostiva sulla carbonella dentro il ferro da stiro. Lavorando, ne mangiava, con l’aria che restava impregnata della fragranza delle stoffe fumanti e dei granchi che giungevano a cottura.
Siccome lo stomaco e la mente gli si guastavano su quel pane per lui indecoroso – essendo artigiano di pregio, si sentiva più affine ai nobili e ai terrieri che ai cafoni – s’ingegnò di impreziosirne le fette spalmandoci sopra la marmellata di salame portata dai soldati al seguito di Gioacchino Murat – la chiamavano andouille, frattaglie in lingua patria – e che il Re aveva ordinato di distribuire ai Lazzari dello Stato partenopeo, gli scugnizzi sorti con Masaniello, per ingraziarseli, dato che scalpitavano. E di migliorarla al palato, scegliendo le interiora più adatte, aggiungendo il peperoncino e aromatizzando. Fonti diverse annotano la provenienza dalla Spagna, nel secolo XVI, portata assieme al peperoncino. Si fa però preferire la prima ipotesi: è più affascinante pensarla giunta per il garbo di un Re.
La ’nduja nasce quindi cibo povero per i poveri, sdegnato dai ricchi finché il benessere allargato non ha fatto riscoprire i sapori della miseria. Fa venire in mente la carne maltrattata sul cippo del macellaio. È gustosissima. Ed esplosiva, per il pepe, rosso, secco e macinato in polvere, mescolato in abbondanza. Fino agli anni 60 i contadini la ricavavano dal residuo che toccava loro dei maiali cresciuti per il padrone: la trippa, il fegato, i polmoni, le frattaglie insomma. Li si sminuzzava al coltello. E si riempiva il budello cieco, detto orba, dal latino orbus, cieco, appunto. Del maiale all’ingrasso non si sprecava nulla. Moriva e muore al tempo in cui Gesù nasce. Mi rimbombano ancora nelle orecchie le sue roche urla al macello con il coltellaccio conficcato in gola e un canale di sangue denso che schizzava in un getto arcuato. Se ne riempiva un catino. E Melo, scannatore ufficiale, porgeva a noi fanciulli, pallidi più della cera delle candele, un bicchiere colmo di quel liquido caldo e nauseabondo, «ché mettete colore».
Imitazioni maldestre
Oggi che la ’nduja ha varcato i confini regionali ed è un prodotto conosciuto e apprezzato in tutto il mondo – la stampa, dal New York Times a Le Monde, ne ha sprecato lodi come di un’altra perla del buongusto italiano – l’insaccato non sono più le frattaglie, ma carni pregiate: sottopancia, spalla, testa e coscia, con un po’ di grasso e tanto peperoncino, da scontarne il bruciore a via di improperi. Si continua a usare il budello cieco, affumicato con legna resinosa e aromatica. Che sia un prodotto d’eccellenza lo dimostrano pure le imitazioni, maldestre talvolta: nell’Iowa utilizzano come carni il prosciutto e lo speck!
Allo stesso modo della ’nduja, lo stoccafisso, o stocco, è diventato cibo di pregio, un lusso, anche per le tasche. Fu introdotto dai Normanni nel secolo XI. È diventato di larghissimo consumo dopo il terremoto di Messina e di Reggio del 1908, quando dalla Norvegia ne inviarono grandi quantità in soccorso alla sventura.
Fino a pochi decenni addietro era un buon parametro da cui riconoscere la classe sociale, persino la sottile e impercettibile gerarchia in cui presumeva di distinguersi il popolino. I ricchi infatti arricciavano il naso disgustati a una pietanza non degna del loro palato. Gli artigiani e i piccoli proprietari terrieri ne facevano largo uso. I poveri erano poveri. E se lo consentivano solo per santificare le feste, accontentandosi dei tranci della coda. Agli indigenti, o quasi, toccava sperare che lo stoccaro regalasse la reschia, la spina, con su appiccicati minuscoli pezzi di polpa, buoni a dare una parvenza di sapore al sugo, quantomeno a immaginarlo.

«Si sazia con il profumo»

Miseria allora. Il Cosimo dei miei ricordi remoti, che abitava nelle infime viscere del Borgo, di un vicino diceva: «Si sazia con il profumo di cucinato che esce da casa mia». Ma era raro che bollisse l’acqua nella pentola in casa sua. E il vicino erano più i giorni che digiunava, e tuttavia sempre ostentava un legnetto di brughiera a mo’ di stuzzicadenti e, all’ora in cui altri mangiavano davvero, si strofinava la pancia a spacciarla sazia di cibo soddisfacente.
Anche la colatura di alici e di acciughe sotto sale, da sapore della miseria, è diventata una prelibatezza. Già i ristoranti alla moda la servono come massima esaltazione del gusto, asserendola, e forse lo è, il garum romano. Si rischia di dover contrarre debiti per potersela permettere. Eppure sono sicuro che l’avrebbe sdegnata persino il vicino di Cosimo che si saziava con l’odore di cucinato. Dentro quel liquido di pesce marcio, sfumato con erbe aromatiche, si cuociono gli spaghetti. O lo si usa da condimento per i secondi piatti. Chi l’avrebbe mai immaginato, la salamoia – in dialetto sarmura, così Leonida Rèpaci in alcuni romanzi pizzicò Palmi, la sua città natale – assurta a grande dignità culinaria e a vanto gastronomico!
La ’nduja, lo stocco e la colatura sono tradizioni che risorgono a dare identità a questa terra. Gusti che il tempo ha modellato. È una fortuna che sia successo. È una fortuna che i disagi di una volta siano diventati marchio da apporci il timbro e soddisfazioni del palato. È una fortuna che Rocco, turista e non più emigrante sull’aereo diretto in Australia, possa rifiutare, alla hostess che gliele propone, le patate lesse, «perché ne ho mangiate tante che mi è germogliata la pianta dentro la pancia».