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 2016  luglio 26 Martedì calendario

Spoon River, i cent’anni di un libro che attraverso la morte racconta la vita

Cento anni sono passati dalla pubblicazione, nel 1916, dell’Antologia di Spoon River, con cui Edgar Lee Masters divenne uno degli scrittori più celebri della letteratura americana e mondiale; e nel trentennale della prima pubblicazione della traduzione di Antonio Porta (1986), ora Il Saggiatore ripropone il testo, a cura di P. Montorfani (pp. 645, 24 euro) e con la premessa di Porta stesso, che ci rivela ancora la sua forza.
Vero è che (p. 618) le traduzioni «invecchiano a una velocità assai superiore a quella delle opere di partenza, è nella loro natura di testi di servizio, inevitabilmente sbilanciati verso nuovi lettori e verso la loro lingua in costante movimento»; sono «ponti che arrugginiscono con il tempo, mentre sotto, limpido e inalterato come il primo giorno, protetta dalla sua stessa essenza di ’classico’, continua a scorrere intatto il fiume del capolavoro originale»: sono queste le parole di Porta («Come sono deperibili le traduzioni dei poeti», Corriere della Sera, 6 marzo 1988), opportunamente riprese dal curatore, il quale ricorda come, oltre alla sfida costituita dalla necessaria revisione di tono e stile rispetto alla storica traduzione di Fernanda Pivano, che datava ormai a quarant’anni prima, gli epitaffi poetici di Lee Masters intercettavano un filone importante nella produzione letteraria del poeta milanese, in quegli anni che sarebbero stati gli ultimi della sua vita.
Nella sua Introduzione, qui ristampata, Porta, rievocando la vita e l’opera di Lee Masters, al di là del debito, evidente, con i classici, in primis quello con l’Antologia Palatina, lo definisce «il primo ’arrabbiato’ della letteratura americana» (p. 18): la «rabbia» nasceva dall’esperienza diretta di fatti, peccati e miserie umane, di cui, spesso, solo un uomo di legge (tale era la professione di Lee Masters) viene messo a parte, finendo per conoscere l’animo umano come e forse meglio di un confessore.
Ma la rabbia, come pure la suggestione dei classici greci non sono sufficienti a spiegare la genesi dell’Antologia di Spoon River: Porta osserva, infatti, che serve un «di più», per creare un’opera come questa. La poesia, infatti, «diventa forte quando il poeta la fa nascere da un di là della vita o, se si vuole, dalla vita che è passata attraverso il setaccio della morte. Se la poesia pone, ai suoi livelli più alti, un problema di verità, come credo, allora l’attraversamento della fine diventa una premessa essenziale» (p. 19).
Ecco, dunque, la centralità, nei classici, del viaggio agli Inferi, da Ulisse (anche se egli, in verità, non scende agli Inferi, ma ne evoca le anime), a Virgilio e a Dante. E proprio a partire da tale premessa si comprende, secondo Porta, l’immensa fortuna della Spoon River Anthology, «che ha avuto più lettori di qualsiasi altro libro di poesia moderna e contemporanea», perché «il punto di vista di Edgar Lee Masters non approda a quel pessimismo radicale che fu di Leopardi (basti pensare alla canzone A Silvia o al pur affine Coro di morti nelle Operette morali), ma conserva una vitalissima capacità di reazione al di qua della morte. La poesia diventa così un linguaggio di verità che agisce nella vita e non si limita a indicare di lontano catastrofi individuali e sociali» (ibid.). Così, troviamo varie volte nell’Antologia un riferimento ai grandi poeti di ogni tempo, quali fonti cui abbeverarci: per esempio, Jack il cieco (p. 201), morto alla fine di un pessimo scherzo tesogli da due ubriachi, dopo che aveva suonato il violino tutto il giorno alla fiera, ora, nella dimensione ultraterrena, insieme con tutti i suonatori «dal più grande al più umile, / scrittori di musica e narratori di storie», resta seduti ai piedi di «un uomo cieco con la fronte / candida e larga come una nuvola», che canta la caduta di Troia. La grande poesia accompagna le nostre vite e ne costituisce il referente che le proietta fuori dalla banalità del contingente e dell’inautentico.
Altro merito di Lee Masters, inoltre, è l’averci parlato del problema centrale di ogni ricerca poetica e di senso: il problema della Verità, ma senza tentare il salto o il volo verso il Sublime, verso le vette dell’indicibile (p. 19): il Diacono Taylor (p. 167), in soli undici versi, ci illustra meglio di un trattato morale che cosa siano l’ipocrisia la coerenza: uomo di moralità pubblicamente rigorosissima, morì, secondo gli abitanti del paese, per aver mangiato troppe angurie; nessuno sospettava che avesse la cirrosi epatica per le sue bevute furtive. Ma, forse, uno dei più belli fra gli epitaffi dell’Antologia è quello di Lois Spears (p. 155): nata cieca, non ha coltivato spirito di rivalsa verso il destino che l’ha menomata, ma è stata invece una donna felice: «io ero la più felice delle donne (...) / avendo cura dei miei cari, / e facendo della mia casa / un luogo di ordine e di generosa ospitalità»: il problema della ricerca di senso viene da questo personaggio affrontato e risolto senza voli pindarici di tensione teorico-formale, ma, semplicemente (si fa per dire: non è affatto poco!) nella felicità del quotidiano, nel gestire la sua dimora con la serena sicurezza di chi sente di non essere in credito con la vita: «perché io passavo per le stanze /e giravo per il giardino / con un istinto più sicuro della vista, / come se ci fossero occhi sulle punte delle mie dita».