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 2016  luglio 23 Sabato calendario

È la Trumpnomics, bellezza

Donald Trump si è conquistato la nomination repubblicana per la corsa alla Casa Bianca: la sua ambizione è rappresentare la middle class (senza distinzioni di razza), rivendicare le libertà economiche tradizionali contro l’establishment (ormai perfettamente bipartisan), ribaltare la gran parte delle decisioni politiche delle ultime amministrazioni democratiche, iniziando dall’Obamacare e dalle relazioni commerciali con Messico e Cina. Obiettivi, questi ultimi, quasi rivoluzionari: non serve a nulla, secondo Trump, essere il gendarme del mondo se poi c’è bisogno dei capitali stranieri per finanziare il debito federale e il disavanzo della bilancia dei pagamenti americana. L’ombrello politico e militare serve alle multinazionali che lavorano all’estero per macinare utili, ma molto meno ai cittadini americani.
Trump è riuscito nell’impresa tentata per anni dai sostenitori del Tea Party, che hanno cercato invano di ribaltare gli equilibri del Gop e di svellere posizioni di potere sedimentate da decenni. Il ritiro di Jebb Bush, cui Trump non ha neppure reso l’onore delle armi, ha segnato la fine delle dinastie in campo repubblicano, che invece con Hillary Clinton resistono tra i democratici: questo sarà il primo discrimine nelle presidenziali di ottobre. Per il candidato repubblicano è stata una campagna giocata tutta all’attacco: contro il suo stesso partito, contro la Clinton e contro i media che hanno virato un po’ troppo spesso sul macchiettistico per sminuirlo. Schierandosi così smaccatamente e pregiudizialmente contro, hanno fatto il gioco di Trump, che parla alla pancia degli americani, e hanno perso credibilità: hanno dimostrato di rappresentare una tessera del sistema di potere che adultera il gioco democratico. Neppure Obama si è sottratto alla tentazione della battuta irridente quando, riferendosi alla capigliatura del candidato repubblicano, ha affermato che «orange is not the new black».
Hillary Clinton non è riuscita a disinnescare Trump: essendo troppo impegnata a prevalere su Sanders, ha finito per subire gli attacchi di entrambi. C’è molto nella campagna elettorale di Trump che ricorda quella di Reagan: anche lui era snobbato dai media, che ricordavano il suo passato di attore di terz’ordine ad Hollywood piuttosto che l’incarico di governatore della California. Anche Reagan proponeva un cambio di paradigma: spezzare il monopolio politico e culturale del New England; abbandonare definitivamente il keynesismo a favore della teoria dell’offerta; guardare al futuro della new economy di cui gli Usa sarebbero stati leader indiscussi. Lo scenario internazionale di allora era tutto centrato sulla sconfitta del comunismo e dell’Urss: gli Usa dovevano dimenticare le umiliazioni politiche, militari e diplomatiche subìte durante la presidenza Carter. Dal fallimento delle trattative tra Israele e palestinesi fino all’assedio della ambasciata americana a Teheran, c’era fin troppo da recuperare. Trump fronteggia un analogo senso di insoddisfazione, tutto legato stavolta alla situazione economica e sociale interna. Il deficit federale è vicino alla soglia del 100% del pil, la bilancia dei pagamenti correnti ha ripreso a peggiorare, mentre la posizione finanziaria netta è negativa per il 41% del pil: gli Usa a fine 2015 erano debitori netti per 7.356 miliardi di dollari verso il resto del mondo.
C’è molto da disfare, secondo Trump, per fare l’America grande ancora, come recita il suo slogan elettorale. L’attacco portato alle decisioni degli ultimi presidenti democratici, Bill Clinton e Obama, non salva praticamente nulla: dall’apertura commerciale squilibrata in favore di Cina e Messico alla politica dell’immigrazione incontrollata, dall’Obamacare tanto sostenuto da Hillary Clinton alla tassazione che stritola il ceto medio. Ciò che colpisce nelle proposte di Trump non è l’impostazione decisamente liberista, del tutto scontata, quanto l’affermazione che il liberismo non può essere a senso unico: non può essere limitato alla concorrenza internazionale sui livelli salariali, trascurando i diritti dei lavoratori, la protezione dell’ambiente e le aspettative dei cittadini americani, rivolgendosi a vantaggio di chi negli Usa fa business con le delocalizzazioni o con l’immigrazione clandestina, ovvero a chi all’estero manipola le valute o impedisce l’accesso sul mercato alle imprese americane. Sono in tanti, in questi anni, ad aver lucrato da questo stato di cose: è contro questo assetto di relazioni politiche, economiche e finanziarie, interne e internazionali, che Trump si scaglia.
L’abrogazione dell’Obamacare è in cima ai propositi. Il risultato della riforma, ad avviso del candidato repubblicano, è nettamente negativo: le spese pubbliche sono aumentate, i premi assicurativi anche, mentre è diminuita la competizione e la possibilità di scelta. Al fine di ampliare le cure sanitarie, rendendole più accessibili, e di migliorare la qualità della assistenza disponibile per tutti gli americani, si propone di abrogare la riforma stabilendo il principio che nessuno può essere obbligato per legge a sottoscrivere un’assicurazione sanitaria. In secondo luogo, occorre aumentare la concorrenza tra le assicurazioni, eliminando le barriere statali: una volta ottenuta l’abilitazione a vendere le polizze in un qualsiasi Stato, si possono venderle automaticamente anche in tutti gli altri. Va prevista la completa deducibilità dall’imponibile dei premi e va consentita la creazione di Conti di Risparmio Sanitario ad accumulazione, esentasse, sulla falsariga dei piani previdenziali. Serve maggiore trasparenza nei prezzi da parte di tutti coloro che offrono servizi sanitari e occorre abbattere le barriere all’ingresso nel settore farmaceutico: se è di certo un’industria privata, fornisce un servizio pubblico. Anche l’importazione di medicinali sicuri deve essere ammessa. Queste sono le sacche di rendite che vanno colpite, in quanto rendono esageratamente cara la sanità americana.
Occorre poi rivedere le relazioni commerciali con la Cina. Mai, afferma Trump, previsione fu più sballata di quella fatta da Bill Clinton nel 2000, all’atto di annunciare l’ingresso della Cina nel Wto. Anziché aprire all’America il mercato cinese, com’era stato promesso, decine di migliaia le imprese statunitensi hanno chiuso i battenti e una decina di milioni di posti di lavoro sono stati persi. Non esiste free trade se non c’è fair trade: ci vuole reciprocità da parte della Cina nell’aprire il suo mercato; sono inaccettabili le condizioni di condividere le conoscenze tecnologiche americane per poter produrre in Cina; bisogna eliminare tutti gli aiuti statali diretti e indiretti che falsano la concorrenza e, soprattutto, bisogna mettere fine al dumping sociale ed ambientale derivante dall’adozione di standard meno cogenti. Ci sono dei veri e propri «paradisi dell’inquinamento» che vanno banditi. Trump promette che nel giorno stesso del suo insediamento come presidente il Dipartimento del Tesoro designerà la Cina come soggetto manipolatore delle valute: se non è guerra aperta, poco ci manca.
Ridurre il deficit estero e il debito pubblico sono quindi obiettivi altamente strategici, perché servono a eliminare un’elevata vulnerabilità americana. La riforma dell’immigrazione è un altro capitolo fondamentale: l’attacco è portato alle lobby padronali che manovrano all’interno di entrambi i partiti del Congresso. È noto che la manodopera illegale costa meno, ha meno diritti e rappresenta un fattore di arricchimento usato senza scrupoli. La criminalità organizzata prolifera e si arricchisce: per questo vanno controllate le frontiere con il Messico e va data la preferenza assoluta alla manodopera americana rispetto agli immigrati.
C’è infine la riforma fiscale, che dovrebbe essere neutrale dal punto di vista del gettito: prevede tre sole aliquote per i redditi da lavoro, oltre a una no tax area che copre i single fino a 25 mila dollari e le coppie sposate fino a 50 mila dollari. La prima aliquota del 10% fino, rispettivamente, a 50 mila e 100 mila dollari; la seconda del 20% fino a 150 mila e 300 mila; la terza del 25% sui redditi ulteriori. Per i redditi da capitale sono previste due aliquote, del 15% e del 20%, che si applicano sugli scaglioni della seconda e terza aliquota di imposta sui redditi da lavoro. Ci sono misure fiscali una tantum, con uno scudo al 10% sul rimpatrio dei capitali detenuti all’estero, l’eliminazione dell’esenzione d’imposta per i guadagni effettuati all’estero fino al rimpatrio, la riduzione della corporate tax al 15% al fine di rendere competitiva la fiscalità americana.
Se non si promettono tagli alle tasse, non è una campagna elettorale come si deve. Quella di Trump rispetta le regole, e comincia con i fuochi d’artificio: ce n’è per tutti. Ci saranno guerre economiche. Se la globalizzazione finanziaria è già un ricordo, anche l’unipolarismo politico e militare americano finanziato a debito non regge. La terra non è più piatta, ma rotonda. Alla ricerca di nuovi equilibri, più che girare, ruzzola.