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 2016  luglio 23 Sabato calendario

I danni della mediocrità spiegati da Toni Servillo

Può sembrare una barba, qualcosa per pochi appassionati uno spettacolo teatrale che parla di teatro. Invece si scopre che è un racconto che tocca la vita, la passione, l’arte, la Storia, il confronto tra le generazioni, lo stare nel mondo, regalando emozioni vere. Elvira (Elvire Jouvet 40) restituisce Toni Servillo, attore e regista, alla scena dopo lavori come Le voci di dentro, la Trilogia della villeggiatura, Sabato domenica e lunedì, Servillo legge Napoli. Il nuovo spettacolo aprirà l’11 ottobre il cartellone del Piccolo di Milano, dove 30 anni fa Giorgio Strehler aveva messo in scena lo stesso testo per inaugurare il Teatro Studio e dove Servillo ha coprodotto i suoi ultimi lavori con i Teatri Uniti. Sarà al Teatro Grassi per due mesi, e già il 31 luglio ci sarà una prova, aperta al pubblico, e il 27 un incontro con Servillo, a Venezia per i laboratori pedagogici della Biennale Teatro.
Elvira è un testo di Brigitte Jaques che trascrisse sette lezioni di Louis Jouvet a una giovane attrice, Claudia, sulla seconda scena di Elvira nel Don Giovanni di Molière: lezioni di teatro e di vita, di un maestro a un’allieva. «Ma sia chiaro: Jouvet non era un guru», sottolinea Servillo. Morto a Parigi nel ‘51 a 64 anni, era uno dei più grandi attori e registi francesi del Novecento, che alternava i suoi Molière col cinema dove era un idolo nei film di Renoir, Pabst, Marcel Carné, Clouzot o nel popolare Knock, ovvero il trionfo della medicina di Guy Lefranc. Una personalità ricca e versatile, un po’ come il nostro Eduardo, «con una tale passione per il mestiere dell’attore da disseminarlo di riflessioni profonde e dubbi nutrienti. Un riferimento essenziale, al pari di Brecht, Stanislavskij, Copeau, Artaud», spiega Servillo, a sua volta tra i pochi attori a dominare l’artigianato teatrale col bisogno di confrontarsi con radici teatrali vicine e lontane, senza rinnegarsi.
Un discorso sul teatro che tocca la vita, dunque.
«Sì, la nostra sfida è ritenere che Elvira tocchi le coscienze dello spettatore, qualunque lavoro o cosa faccia. Non si tratta di una arida materia teatrale, ma del racconto di un maestro e una allieva in un fecondo confronto generazionale. Si parla di disciplina, di cosa sia fare i conti con le parti più profonde di se stessi per migliorarci. E poi c’è qualcosa che ci tocca: le sette lezioni si svolgono nell’arco di 5 mesi, dal 14 febbraio 1940 al 21 settembre 1940, quando la Francia veniva occupata dai nazisti, in un clima diverso ma non lontano dai giorni che viviamo di pura barbarie. Credo sia importante vedere i due protagonisti che vi si oppongono con la serietà del loro lavoro, convinti che il teatro possa far prevalere i valori dello spirito e della bellezza».
Lo pensa anche lei?
«Sì, se il talento viene disciplinato da costante meditazione e coscienza di sé, altrimenti si resta legati in maniera corruttiva al successo del momento e non succede nulla. E questo è vero non solo nel teatro. Jouvet ce lo spiega affrontando uno dei monologhi più belli della storia letteraria, quello in cui Donna Elvira vuole salvare l’amante che la disonorò. Su quella materia, ci mostra che la disciplina interiore è ciò che dà vita all’opera d’arte, ciò che differenzia il comédien dall’acteur, dove il primo scava dentro se stesso per mettersi al servizio dei personaggi, l’acteur esibisce solo se stesso».
Lei vide lo spettacolo di Strehler che in Jouvet rifletteva la propria poetica teatrale?
«Non lo vidi. So che Strehler fece tagli al testo, aggiungendo suoi pensieri, sovrapponendo la sua figura a quella di Jouvet. E non a caso con lui c’era Giulia Lazzarini, non certo un’allieva, ma una protagonista già matura. Io mi attengo all’originale, più secco e stringato».
Quanto è importante la relazione allievo-maestro su cui Jouvet insiste?
«Fondamentale, la trasmissione dei saperi vuol dire futuro. Nel rapporto maieutico l’allieva impara qualcosa dal maestro ma anche il maestro impara qualcosa da lei. Bisogna sapere quanto conta la scelta del maestro. Viviamo in un’epoca in cui i modelli tendono a essere mediocri in modo che la loro raggiungibilità sia comoda. Se il modello è alto, al contrario, ci si trova in una enorme distanza con esso, ma è proprio quel percorso che ci mette nella condizione di crescere. Jouvet dice agli allievi: avrete imparato qualcosa il giorno in cui avrete la consapevolezza interiore che ciò che siete è in relazione a ciò che fate. In quella corrispondenza c’è la chiave della vita, non solo del teatro».
Che rapporto ha con i giovani?
«Ho lavorato con molti di loro, nel concreto degli spettacoli. Nella
Trilogia, per esempio, con Anna Della Rosa, Chiara Baffi, Marco D’Amore. O con Fabrizio Falco nell’unico laboratorio didattico che feci tanti anni fa. Qui con me ci saranno attori giovanissimi, Petra Valentini- Elvira, Davide Cirri e Francesco Marino».
E con i maestri?
«In un dialogo a distanza, riconosco Jouvet e Eduardo. Poi Carlo Cecchi, Leo De Berardinis ma anche Teatri Uniti per il confronto tra le diverse personalità a cominciare da Antonio Neiwiller. E poi incontri con Fabio Vacchi, Giorgio Battistelli, Paolo Sorrentino, Mimmo Paladino, Mario Martone... Ho imparato che il mestiere del recitare non è l’ossessione del nuovo, né la furia iconoclasta ma approfondimento, è l’avventura dello spirito che, come dicevano Jouvet e Eduardo, esercita la tolleranza, l’ascolto, la bellezza. E per questo ci aiuta a orientarci nel mondo».