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 2016  luglio 23 Sabato calendario

Luca Carboni non è pigro. «È solo che non amo il mondo che corre»

La caldaia non funziona. L’idraulico non arriva. Luca aspetta. La camera di compressione fa capricci, gronda acqua. L’idraulico tarda. Luca non perde la pazienza. Un tubo della condensa è intasato. Non arriveranno prima di sera per la riparazione. Luca non impreca.
Aspetta. Disdice gli appuntamenti e se ne sta rintanato nella casa tra Bologna e l’Appennino a godersi la normalità, che da sempre è la sua priorità.
E il pop? Cos’è? Un piano B? «Io appartengo al gruppo sanguigno B, quello dei nomadi che si è evoluto dopo le scorribande di Gengis Khan», scherza Luca Carboni, il cantautore bolognese 53enne che esordì nel 1984 con l’album...Intanto Dustin Hoffman non sbaglia un film. «Sono zingaro al midollo, tutt’altro che stanziale, mi piace cambiare casa, piantare la tenda sempre un po’ più in là. In questo momento, pur amando follemente Bologna, mi piace vivere il suo contrario». Nel brano Happy, dal suo recente album Pop-up, canta: “La vita è breve ma non amo correre”. Per Luca il segreto della felicità è tutto nella capacità di rallentare, spiega. «Decelerare non vuol dire esser pigri ma viaggiare controvento, evitare il binario che non può scartare di lato, come diceva De Gregori».
«Ho bisogno di prender tempo, fermarmi ad annusare, curiosare, fare ogni volta un bagno nell’anonima quotidianità. È un concetto filosofico. Tutti cerchiamo di descrivere la felicità, immortalarla, catturarla, cristallizzarla, dagli antichi filosofi fino ai cantautori (mi viene in mente Lucio Dalla, che parla della felicità che passa come un treno nella notte). Per me la felicità è ascoltare se stessi, lavorare in libertà, schivare i compromessi, per quanto è possibile». Ci vuole un certo distacco per vivere così. Per un artista pop la paura di scomparire può diventare addirittura un’ossessione. Luca invece pare aver maturato un rapporto equilibrato con le cose del pop. «Distacco sì, ma non alienazione dalla realtà», precisa, «perché un creativo deve avere le antenne puntate su quel che succede. Il distacco è la più sublime delle arti». Luca ha un’attenzione maniacale per le piccole cose. Difficile credere che sia sempre stato così. Il pop singer pensa in grande, sorvola le banalità, s’immagina immortale, si culla nell’adulazione, indugia sulla vanità, si compiace del proprio sex appeal. Luca è rimasto sempre in equilibrio tra celebrità e semplicità, e quando ha sbagliato (la trappola della droga), si è curato ripartendo dal basso. «L’attenzione per le piccole cose è la chiave della nostra generazione, di quelli come me che negli Ottanta avevano vent’anni», dice. «Guerra fredda, musica impegnata, politica che entrava prepotentemente nelle canzoni e nella famiglia, grandi temi e grandi tensioni, discorsi interminabili sui valori e sugli ideali – per essere un ribelle dovevo rivalutare le piccole cose, guardare l’uomo scevro da ideali e divise, raccontarne anche difetti, meschinità, piccolezze. Giuro, è stato così fin dagli esordi. Il passaggio dall’adolescenza all’età adulta è un momento unico, è un momento di grandi motivazioni e di estrema lucidità, ti senti portavoce della tua generazione, non sei più solo un individuo ma la nuova fonte di energia, un fiume in piena che raccoglie i rivoli del mondo nuovo che ti circonda. In particolare nel pop: la canzone è un’onda generazionale». Luca è cresciuto in una famiglia molto cattolica, madre insegnante di catechismo, lui obiettore di coscienza per la Caritas; l’attenzione per gli altri gli veniva sollecitata quotidianamente. Il successo non l’ha inquinata, anche se quelle apparizioni nella tivvù degli anni Ottanta sembravano il passepartout per una vita speciale. Non riesce an- cora a spiegare ciò che scatenò nell’aspirante cantautore l’amicizia con un gigante del pop come Lucio Dalla. «Con Lucio è stato un rapporto assai filosofico», dice. «Più che un amico, un maestro. Dall’81 all’87 ci vedevamo quasi tutti i giorni, magari anche solo per una partita a biliardino con Morandi, nella stessa sala giochi, tutti i pomeriggi. Si usciva a piedi. Stargli accanto era come andare a scuola, disquisiva su tutto, la sua cultura m’investiva; per un ragazzo giovane e inesperto era una fonte di conoscenza, imparavo tanto, e non solo di musica. In due o tre anni mi fece crescere di vent’anni. Nel privato era una persona divertentissima, con lui si rideva sempre e tanto. Avevamo le stesse passioni, il calcio, il Bologna, il basket – io per la Fortitudo, lui per la Virtus – ma il tifo non ha mai inquinato il nostro rapporto. Nella Bologna di quegli anni il basket era un rito più sacro del calcio. Dopo mezzanotte ci si ritrovava tutti da Vito, un’osteria di Via Paolo Fabbri scoperta da Guccini, che lì giocava a tarocchi. Si parlava di musica, di sport, di arte, di donne, di tutto, fino alla mattina. Fu lì che consegnai a Lucio i testi per il primo disco degli Stadio. Se la felicità esiste, per me è quella lì».
Dall’osteria al pop il passo fu breve. Luca diventò un idolo generazionale, che si raccontava con la semplicità del De Gregori più naïf, che faceva piangere e sognare con Silvia e Farfallina, canzoni in un album da 700mila copie vendute. Molto aperto, ingenuo, timido, incalza, «indifeso, disarmato, ma sensibilissimo, come vedo ora mio figlio. Grazie a Lucio e agli altri imparai a lavorarla questa sensibilità, a metterla a frutto. Non ero un tipo speciale. La normalità era la mia specialità, non capivo i miei amici che sbavavano per diventare delle stelle del pop. In effetti mi sono successi un po’ di miracoli che non mi sono ancora spiegato…». Celentano lo volle nel suo Fantastico da 20milioni di telespettatori; il successo definitivo, quello che segna per tutta la vita. Non si fece strappare dal nido. Si riaggrappò alle piccole cose, attraverso un album più riflessivo e intimista. «”Persone silenziose” fu la reazione allo spavento che quella situazione mi creava, allo sconcerto di fronte al successo pop, al fatto di essere stato strappato violentemente all’anonimato. Era un disco che fuggiva verso altre direzioni. Volevo riappropriarmi della mia intimità e inconsciamente di un ruolo cantautorale lontano dal facile successo. Mi rifugiavo per la prima volta in modelli del passato, volevo sentirmi vicino a Guccini e a Claudio Lolli, il successo mi aveva terrorizzato». Poi passarono tre anni, ascoltò Kalimba de luna di Toni Esposito con quella bellissima sonorità latina, e tornò di corsa tra le braccia del pop: Fisico bestiale e Mare mare, la sua autostrada verso gli anni Novanta. Adesso Luca è di nuovo qui, a godersi quello che chiama il tempo dell’amore. Gli vogliono ancora bene, anche se fa un disco ogni quattro- cinque anni. Il successo di Pop- up e del successivo tour ne sono la conferma. «Forse per qualcuno ero molto out», conclude.
«Che dire? Vivo dentro la normalità, anche se non c’è mai niente di normale». Niente e nessuno, neanche l’idraulico che si presenta a ora di cena.