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 2016  luglio 24 Domenica calendario

Nei romanzi, si mangia. Ecco quali sono i più calorici

Devo fare subito una dichiarazione di cui sono piuttosto orgoglioso: pur amando la letteratura fin da bambino, non sono mai caduto nella trappola della cena con il menù di un romanzo. Non mi sono mai lasciato sedurre dal timballo di maccheroni del Gattopardo e soprattutto ho evitato con cura quella follia che è stata la ricostruzione del pranzo di Babette di Blixen, follia nata appena dopo il film di Gabriel Axel. Cioè: non ho mai tentato di riportare nella vita reale ciò che ho letto nei libri, anche quando ho avuto l’acquolina in bocca. La prova inconfutabile della non trasferibilità l’ho avuta subito, fin da ragazzino, con una serie di film, che erano quelli di Bud Spencer e Terence Hill, e in verità anche con i western più seri. A un certo punto, sempre, mangiavano con avidità dei fagioli, e lo facevano con tale avidità e realismo che veniva davvero voglia di correre a casa a mangiare i fagioli. Era la sensazione che provavo ogni volta che vedevo Terence Hill infilare il cucchiaio in bocca con golosità. Ma allora, come ancora adesso, avevo e ho un problema: se c’è una cosa che non riesco a mangiare, e quasi nemmeno a veder mangiare, sono i fagioli. Li odio, mi fanno venire il voltastomaco. Quindi la letteratura me li rendeva golosi e la vita me li rendeva nauseanti.
Ecco, la letteratura forse è questo: farti venire una voglia irresistibile di mangiare i fagioli anche se i fagioli non ti piacciono. E se ami la letteratura, devi crederci a quella voglia irresistibile, ma non fino al punto da andare a casa e mangiare realmente i fagioli. È davvero come fare la solita domanda che fa impazzire un autore: ma è autobiografico? La risposta è: ma che ti importa? Che differenza fa? I fagioli devono farti venire voglia di mangiare i fagioli, ma non ha nessun senso poi mangiarli per davvero. E da questo si può trarre anche un’altra conclusione: la letteratura casomai ti fa provare delle emozioni, casomai ti fa addirittura capire qualcosa, ma da qui a risolvere i tuoi problemi ce ne passa. Insomma, non è terapeutica, non ti fa diventare una persona migliore. Non riesce, alla fine, a farti conciliare nemmeno con i fagioli.
Per questo motivo, non bisogna chiedere troppo ai romanzi. Se non chiedi troppo, avrai qualcosa, di casuale e non utilizzabile direttamente. Quindi, la quantità di calorie nella letteratura non può essere determinante. Però è curiosa. In un romanzo c’è lo stufato di carne e in un altro i frutti di bosco. Si possono trarre delle conclusioni anche da questo?
Chissà. Però, devo ammettere che a un primo sguardo ho una predilezione per i romanzi dove sono presenti molte calorie: forse Pynchon è esagerato con l’ossessione per le banane, ma Middlesex dà molta soddisfazione, e gli americani in genere alimentano le loro pagine con calorie in abbondanza, sia per necessità come in Moby Dick, sia per piacere distratto come Lethem o John Kennedy Toole; e ovviamente poi c’è il cibo mondano di Fitzgerald: roba che si mangia in piedi ma che serve anche a contrastare l’alcol, quindi senza attenzione agli equilibri dietetici, ma solo perdizione leggera, per chiacchierare e guardare malinconicamente dalla finestra. Solo Rebecca di Daphne du Maurier tiene il confronto sulla quantità e le calorie con focacce, frittelle, sandwich e torte. Però, tra i meno calorici, mi sento di spendere una parola per Cormac McCarthy. Che sembra a dieta con gli apporti calorici di pere e pesche, ma in realtà nel suo romanzo c’è una certa difficoltà a reperire cibo in un mondo che è completamente distrutto. Quindi, le pere hanno una loro logica. Né McCarthy poteva sapere che un genere di frutta che si può mangiare in realtà solo durante l’apocalisse, sarebbe diventata di moda. Andate in qualsiasi ristorante appena un po’ sofisticato e la pera, caramellata o no, sarà in tutti i piatti con la carne, il pesce o cos’altro. E i dolci sono quasi tutti con le pere. Il mondo sembra impazzito, quando prima se qualcuno proponeva: vuoi una pera?, gliela tiravamo dietro, come se ci avesse insultati.
Nei romanzi, si mangia. Spesso si sta a tavola, si fa colazione, si chiacchiera a cena, e a pranzo o a cena succedono degli eventi memorabili. Perché nei romanzi c’è tempo per tutto, al contrario dei racconti che corrono dritti verso il finale e allora tutta la vita quotidiana salta, a meno che non abbia un segno di decisività. Nei romanzi c’è il tempo per divagare, anche per riposarsi. E quindi si può cucinare, apparecchiare la tavola, assaggiare, commentare e perfino sparecchiare. Poi, sulla scelta di cosa mangiare, sulla quantità di calorie, e sulla complessità dei piatti, intervengono molti fattori: se devi catturare una balena, se giri per strada con un figlio piccolo pensando che chiunque ti possa ammazzare; o se stai in una grande casa nella contea di Clayton e pensi che domani è un altro giorno, se sei in vacanza sulle isole Ebridi e vuoi fare una gita al faro – insomma il tuo pensiero sulle calorie, la quantità di tempo spesa a pensare alle calorie, cambia.
E se proprio bisogna guardare alle calorie, allora la mia preferita, come sempre, è Nora Ephron: budino di riso. Un equilibrio perfetto tra quello che ti piace e quello che ti è consentito mangiare. Ma se siete ancora capaci di amare farina, uova, burro, zucchero, vaniglia e nocciole, allora tornate alla madeleine di Proust: da lì comincia tutto, è quello il matrimonio tra la creatività e le calorie. Poi il doping ha spinto anche verso i timballi di maccheroni o ha portato Babette a cucinare il brodo di tartaruga e le quaglie en sarcophage (che ci stiamo ancora tutti chiedendo cosa c’era lì dentro oltre alle quaglie). Ma appunto, niente paura: i romanzi non fanno ingrassare. Né dimagrire, però.