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 2016  luglio 24 Domenica calendario

Da Columbine a Utoya, le stragi che hanno ispirato il diciottenne di Monaco (e non solo)

Come i terroristi, hanno le loro date simbolo. Il 20 aprile 1999, giorno del massacro di Columbine, Stati Uniti. Oppure il 22 luglio 2011, la strage di Utoya in Norvegia. Come i terroristi hanno i loro idoli: coloro che li hanno preceduti macchiandosi di delitti orrendi. Come i terroristi registrano i video prima della missione e scrivono lunghi «manifesti» per spiegare i loro attacchi. Come i terroristi utilizzano Internet per documentarsi, per cercare – disperatamente – altri solitari, per trovare pretesti e motivi delle ferite che si portano nella mente e talvolta sulla pelle. Turbe, malattie. Come i terroristi progettano l’assalto, per settimane o per anni. Molti di loro sono convinti – esattamente come un militante jihadista – di avere il diritto di far soffrire il prossimo. Non considereranno mai il loro gesto criminale, ma piuttosto il simbolo di riscatto oppure una vendetta. Dunque ammissibile.
Molti sono «in cerca di giustificazioni», scrive il professore Peter Langman. Un nome non a caso. Il suo libro Perché i ragazzi uccidono era nella casa del giovane responsabile dell’assalto di Monaco. Un testo importante per chi vuole capire un mondo angosciante. L’omicida avrà divorato le pagine, ritrovando se stesso e le storie di altri «lupi». Percorso abbastanza comune tra gli stragisti. E poco importa dove vivano. Quelli americani hanno ispirato «fratelli del dolore» in Germania e Finlandia, i due Paesi – insieme alla Scozia – sconvolti da episodi simili. Sono emersi anche contatti a distanza. Agenti di influenza, quasi degli ispiratori, con dediche appassionate su YouTube.
Anders Breivik, l’attentatore di Utoya, è diventato il riferimento con il suo gigantesco studio dove immagina la «resistenza del Cavaliere Templare» contro gli stranieri. Un testo xenofobo, poi diffuso via web, risultato di 15 mila ore di lavoro, al 70 per cento passate davanti a un computer. La sua vera trincea.
Per la polizia tedesca il norvegese avrebbe affascinato l’assassino del centro commerciale bavarese. Così come Tim Kretschmer, diciassettenne viziato e pieno di problemi, che l’11 marzo del 2009 ha ucciso 15 persone – in gran parte donne – a Winnenden. Raccontava di essere stato vittima di bullismo (ma non lo era), uno psicopatico che dirà a uno degli ostaggi: «Ammazzo per divertimento». Candido e crudele, come lo era Eric Harris nei corridoi del liceo di Columbine.
Le indagini scopriranno, con grande ritardo, i diari degli assassini del Colorado, pagine dove loro affermano di voler provocare la «rivoluzione dei diseredati». Adam Lanza, responsabile del martirio dei bimbi di Newtown, ha distrutto la memoria del computer cancellando ogni traccia, si è lasciato dietro l’archivio con centinaia di schede dedicate ai killer di massa. Teneva i conti dei morti, voleva superare il record. Un adolescente malato e non curato a dovere, forse pensava di vivere uno di quei videogiochi che lo tenevano impegnato tutta la giornata, fino a notte fonda, nel seminterrato della sua villa trasformato in un rifugio contro gli altri e il mondo. Ne usciva raramente, l’ultima volta – il 14 dicembre 2012 – ha prima freddato la madre, poi ha attaccato le elementari della cittadina del Connecticut.
Oggi si ripete come sia «difficile prevenire». Vero. Però gli analisti indicano dei parametri che possono aiutare. Primo. Non esiste un profilo unico, non basarsi su luoghi comuni. Secondo. In un buon numero di casi qualcuno – un familiare, un conoscente, un amico – hanno colto segni di anormalità, riscontrato idee pericolose in giovani afflitti da gravi patologie.
Terzo. Sono emersi elementi di stress, tensione, nell’immediatezza di un evento delittuoso. Quarto. Non tutti sono isolati, alcuni al contrario sono inseriti nel contesto sociale, però lasciano trasparire il loro malessere. Quinto. L’esplosione di violenza può essere improvvisa, ma sovente matura attraverso un lungo processo, da qui la possibilità di intercettare le intenzioni pericolose.
Infine un capitolo che investe i mass media. Diversi osservatori hanno rilevato che il rischio di emulazione è molto alto, un attacco importante può essere seguito da altri minori, magari solo abbozzati. Poi c’è la «fama» dell’autore. I kamikaze dell’Isis postano le loro immagini prima di salire sul camion-bomba, saranno ricordati da combattenti. Stessa cosa per lo sparatore di massa.
Spera di uscire dall’anonimato. Per questo non ho mai usato il nome del tedesco-iraniano e credo sia venuto il momento di creare un blackout attorno a chi deve essere dimenticato e mai citato.