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 2016  luglio 24 Domenica calendario

Abolire la Tobin Tax per fare di Milano la piazza finanziaria d’Europa

Milano aspira giustamente a essere, dopo Brexit, una piazza finanziaria alternativa a Londra. Ci si illude un po’. Ma provarci non guasta. L’autorità bancaria europea (Eba) dovrà cambiare sede. Le probabilità che possa traslocare nel capoluogo lombardo – avendo già alla sua testa un connazionale e con la precaria situazione dei nostri istituti di credito – si avvicinano allo zero. Ma le buone carte italiane sono numerose. L’attrattività di Milano è già di per sé elevata. Non sono poche le aziende internazionali che pensano di trasferirvi il loro quartier generale o aprire nuovi uffici. Contano anche qualità della vita, offerta scolastica e universitaria, centralità della cultura. Renzi è seriamente impegnato, il sindaco Sala si sta spendendo con generosità.
C’è un segnale che il governo potrebbe dare subito? Sì c’è, e sarebbe molto apprezzato dagli operatori e dai mercati. L’abolizione, o quantomeno la sospensione, dell’inutile e dannosa tassa sulle transazioni finanziarie, meglio conosciuta come Tobin tax. La introdusse il governo Monti con la legge 228 del 24 dicembre del 2012 anticipando quello che era, ed è ancora formalmente, un intento europeo. Insomma, nell’adottare all’epoca un nuovo balzello fummo più lesti degli altri, forse anche per dare un contentino alla sinistra da parte di un governo che aveva appena tagliato le pensioni con la legge Fornero.
U na volta tanto primi nel fare i nostri «compiti a casa». Bravi. Ma rimasti poi beffardamente isolati. Sì perché i francesi e gli stessi inglesi hanno previsto, all’italiana, una serie cospicua di eccezioni. Coerentemente furbi. Noi assurdamente rigidi. Morale: gli unici ad applicarla veramente siamo noi. La Svezia ci provò nell’84 salvo poi rinunciarvi, constatati i danni, nel ‘90.
Londra sta reagendo agli effetti di una prossima uscita dall’Europa. E studia di trasformarsi in una sorta di paradiso fiscale con la promessa di ridurre la corporate tax, la tassa sulle imprese, dal 20 a meno del 15 per cento. Lo aveva detto George Osborne, cancelliere dello Scacchiere britannico. Non c’è motivo di dubitare che il suo successore Philip Hammond, «gemello» (stessa età, stessa università) di Theresa May, faccia altrettanto. E noi vogliamo fare concorrenza a Londra mantenendo la Tobin tax che il resto d’Europa non ha alcun interesse ad adottare? Non illudiamoci. Fosse utile, ma non lo è. Il suo gettito è contenuto: non più di 450 milioni l’anno. Addirittura negativo se si considera l’impatto penalizzante sul volume d’affari degli intermediari italiani. Lavorando di meno si contribuisce meno all’economia e all’Erario. La tassa sulle transazioni finanziarie disincentiva l’investimento in aziende italiane, ostacola la mobilità dei capitali, crea distorsioni a tutto vantaggio dei concorrenti industriali e finanziari delle aziende nel nostro Paese. Farsi male gratuitamente ha qualcosa di masochistico e incomprensibile.
La tassa porta il nome dell’economista americano premio Nobel James Tobin (1918-2002) che per primo la propose. Un’intuizione molto apprezzata, soprattutto a sinistra, che aveva lo scopo, del tutto condivisibile, di frenare gli eccessi della finanza internazionale più speculativa. «Tobin pensava in questo modo – spiega Gabriella Chiesa, ordinario di economia politica a Bologna – di mettere qualche granello di sabbia nell’ingranaggio della mobilità selvaggia dei capitali, fenomeno poi amplificato negli anni successivi grazie al meccanismo della leva promosso dall’innovazione finanziaria. Cioè il comprare titoli con un briciolo di mezzi propri mettendo a collaterale, a garanzia, i titoli stessi che si stanno acquistando».
La proposta di Tobin risale al 1972 (appena dopo la fine del sistema monetario di Bretton Woods), quando la globalizzazione e lo sviluppo dei sistemi finanziari erano ancora in fasce. La sua analisi è ancora attuale, vista la necessità di stabilizzare i flussi finanziari, ridurre la volatilità dei mercati e scongiurare il formarsi di pericolose bolle, ma il rimedio è vetusto e inefficace. Conserva però un attraente fascino politico. Non a caso l’idea ha sedotto lungamente i socialisti francesi (piace al commissario europeo Pierre Moscovici). E tra gli ultimi sostenitori c’è anche il nostro ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, affezionato a uno strumento che fa parte della sua tradizionale «cassetta degli attrezzi». È rimasto solo però, anche all’interno del suo ministero, a difendere la Tobin tax. Confidiamo nel proverbiale pragmatismo di cui ha dato ampia prova.