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 2016  luglio 24 Domenica calendario

Intervista a Jeff Besoz, l’uomo che vuole colonizzare lo spazio

Jeff Bezos è la passione per l’innovazione, la fiducia nel futuro nonostante i tempi, il riscatto del fallimento come tappa inevitabile del creare. «I problemi del presente sono grandi», afferma, «ma la nostra capacità di risolverli è assai maggiore». L’incontro con il fondatore di Amazon, il più grande mercato al dettaglio del mondo, è l’occasione per parlare anche di cultura aziendale, di cinema, di giornali, dei rapporti tra Stati Uniti ed Europa, di Donald Trump, di Matteo Renzi, delle scelte chiave della vita. A dare il ritmo alla conversazione è la sua risata spiazzante. Per quanto sia proverbiale – ascoltare per credere, su YouTube ce ne sono diverse raccolte – quando arriva è una specie di boato. Un’esplosione inattesa, prolungata, che coinvolge e intimidisce. Nel tempo trascorso insieme ne conteremo una ventina. A cinquantadue anni, abito grigio e camicia bianca, l’imprenditore è a Firenze per una breve vacanza con la moglie, scrittrice. Minuto e tonico, taglio di capelli che ricorda il quadrato ufficiali della serie di fantascienza Star Trek, di recente è divenuto il terzo uomo più ricco del mondo dopo Amancio Ortega, patron di Zara, e Bill Gates, fondatore di Microsoft. Bezos annuncia l’apertura di un centro logistico a Roma e di un laboratorio di ricerca per l’intelligenza artificiale a Torino: «Abbiamo una mezza dozzina di strutture analoghe in giro per il mondo», spiega. «Abbiamo scelto Torino perché ha un’università d’eccellenza, questo è il vero motivo: stare dove si sfornano i talenti che ci servono, e poi è vicina a Milano».
L’intelligenza artificiale cambierà il nostro modo di vivere?
«Siamo all’inizio di un’epoca d’oro. Questo è stato un sogno della fantascienza per molti decenni. Ancora non sappiamo costruire computer che pensino come gli esseri umani, ma siamo in grado di risolvere problemi che solo dieci anni fa sembravano impossibili. Dalla medicina alle automobili senza guidatore, al linguaggio, sarà un’infrastruttura abilitante e tutte le industrie la utilizzeranno ».
Partiamo dall’informazione, lei ha acquistato il quotidiano “Washington Post”. Pensa che i media tradizionali possano avere un futuro? E sarà un settore che si sosterrà sulla pubblicità o sugli abbonamenti?
«Ci saranno modelli diversi, sono convinto che alcuni giornali – non tutti – ce la faranno. Accanto a loro stanno crescendo testate solo digitali, già le vediamo. Il Washington Post avrà un futuro brillante. È sempre stato uno straordinario quotidiano locale con una reputazione globale, ora abbiamo la possibilità di farne un giornale globale con una reputazione altrettanto globale. Stiamo provando la transizione da una testata che traeva molti ricavi da un numero tutto sommato ristretto di lettori, a una che realizza meno ricavi per utente, ma con una platea assai più vasta. Penso che questo sia l’approccio giusto per il Post, per altri invece potrebbe non funzionare».
Dunque il giornalismo non dovrà per forza affidarsi alla filantropia o al non profit.
«È salutare e opportuno che una testata sia in grado di sostenersi da sé. È il modello che ha funzionato a lungo, non c’è motivo per il quale non sia possibile tornarvi e questo garantisce indipendenza al giornalismo».
Un’altra sua passione è lo spazio. Ha recitato in un cameo nell’ultimo film della saga di Star Trek, “Beyond”. Come è andata?
«Ho mendicato la parte».
È stato divertente?
«Moltissimo. Mi hanno truccato per due ore. Sono venuti in ufficio a Seattle, hanno fatto un calco della mia testa, perché le protesi andavano realizzate su misura. Per me è stata una finestra su un mondo totalmente diverso. Conosco la serie, ne sono un fan fin da bambino, ho visto tutti gli episodi più volte, mi piacciono i personaggi».
Una volta, al liceo, lei scrisse del suo sogno di colonizzare lo spazio e di trasformare la Terra in una riserva naturale.
«Sì, non ho cambiato idea: a questo sto ancora lavorando ».
Lei con Blue Origin, Elon Musk con SpaceX, Richard Branson con Virgin Galactic. Chi di voi è nella posizione migliore nella corsa allo spazio?
«Lo spazio è così grande che può ospitare molti vincitori. Spero che SpaceX faccia bene, Virgin Galactic altrettanto, e così gli altri. I grandi settori non sono fatti da una sola azienda, ma da una moltitudine di imprese, in modo da realizzare un ecosistema. Il mio sogno è che la prossima generazione possa vivere lo stesso spirito di espansione imprenditoriale nello spazio che abbiamo visto all’opera negli ultimi vent’anni su Internet. Perché ciò accada società come Blue Origin devono rendere possibile il trasporto di un’infrastruttura a basso costo. Pensiamo si possa viaggiare nello spazio in modo sicuro ed economico. Se ci riusciremo avremo preparato il mondo per la prossima generazione. Vogliamo vedere milioni di persone lavorare e vivere nello spazio».
Il motto di Blue Origin è “Gradatim ferociter”, un passo alla volta, con determinazione. È anche la sua filosofia?
«Penso di sì. Ho sempre ritenuto che lento significhi calmo, e calmo veloce. Non ho mai creduto alle scorciatoie. La via facile è un’illusione, devi lavorare duro, costruire le fondamenta, e poi su quelle edificare. È quel che facciamo in Amazon e al Washington Post. Bisogna essere testardi nella visione, flessibili nei dettagli. Ogni volta che sperimenti impari, e questo ti porta a cambiare il piano. I programmi devono mutare. Ma la visione deve essere stabile nel tempo, se ci credi devi insistere. Metti a fuoco una meta che ti appassiona e vai. Non aver paura di ammettere che un esperimento è fallito. Avrai imparato qualcosa di nuovo che può nutrire la tua visione».
Amazon è nata nel ‘94. Oggi ha più di centocinquantamila dipendenti e oltre cento miliardi di dollari di ricavi. Qual è la ragione di questi risultati?
«Ricordo bene quando guidavo ogni mattina per portare i pacchi da spedire all’ufficio postale, sperando che un giorno mi sarei potuto permettere un carrello elevatore per caricarli. Tutto è cambiato, ma non le cose importanti. Siamo ancora ossessionati dai clienti, ci piace inventare, essere pionieri, prendere la strada più lunga, niente scorciatoie, concentrati, fieri di lavorare bene».
Cos’è oggi Amazon? Un’azienda tecnologica, un’impresa di commercio al dettaglio, una società che fa di tutto?
«Quel che facciamo è mosso dalla tecnologia. Se dovessi scegliere una definizione direi che è una customer company, un’azienda al servizio dei clienti. La prima ragione per la quale abbiamo avuto successo nel tempo è perché siamo ossessionati dai consumatori più che dai nostri concorrenti. Lavorare sodo per far piacere ai clienti: è da questo che viene la nostra energia, non dal lottare con i concorrenti. È il nostro segreto».
Va bene la tecnologia, ma di recente avete anche aperto librerie fisiche, negozi.
«È un esperimento. La velocità con la quale lo estenderemo dipende da quanto saremo in grado di capire. Vogliamo essere certi che abbia un senso».
Amazon ha anche una cultura specifica. In azienda ad esempio sono vietate le presentazioni con il Power point.
«Sì, devi scrivere frasi complete, con verbi e nomi, argomenti, paragrafi. Il problema delle presentazioni è che sono facili per l’autore, perché basta mettere in fila una lista di punti, ma difficili per chi ascolta. Quando devi scrivere un documento di sei pagine, sei costretto a capire il tuo pensiero. Se scrivo, io stesso mi accorgo di aver capito meglio cosa volevo dire. Le nostre riunioni durano un’ora, un’ora e mezza. I primi trenta minuti li passiamo in silenzio, leggendo il documento e prendendo appunti. Dopo si discute. Leggere in silenzio migliora la qualità della conversazione».
Alcuni prodotti di Amazon, come il lettore di ebook Kindle, o i servizi Aws per le imprese, hanno scardinato i rispettivi settori, innovando radicalmente. Qual è la ricetta dell’innovazione?
«Semplice. Migliorare l’esperienza del cliente. Per essere tale, un’innovazione deve essere adottata dai consumatori. Se non la scelgono, se preferiscono la strada vecchia, non c’è innovazione. Amiamo inventare e siamo disposti a fallire. I grandi vincitori, come Kindle e Aws, ti ripagano dei fallimenti. Il fallimento è costoso, è imbarazzante, è spiacevole. In alcune culture può anche essere la ragione della tua rimozione, del tuo licenziamento. Invenzione e fallimento sono la stessa cosa, non puoi avere l’una senza l’altro».
Si ricordano sempre i successi, ma i fallimenti? Qual è stato il suo più grande fallimento?
«Ce ne sono stati moltissimi. Non basterebbe il tempo di quest’intervista per elencarli. Un esempio. Uno dei più grandi si chiamava “Le aste di Amazon”, quindici anni fa. Pensavo fosse un sistema ottimo, solo mia madre diceva di averlo usato, ma forse nemmeno lei. Abbiamo riprovato due anni dopo, ancora niente da fare. Alla fine è uscito “Amazon Marketplace”, che dopo altri diciotto mesi diventò il quattro per cento di tutte le nostre vendite. A quel punto abbiamo capito che finalmente avevamo trovato un vincitore. Testardi nella visione e flessibili nei dettagli».
Amazon è conosciuta per il suo rigore e la sua frugalità. Ma l’anno scorso un’inchiesta del “New York Times” denunciò un clima di pressione eccessiva sui dipendenti. Come reagisce a queste critiche?
«Il public editor del New York Times ha riconosciuto che in quell’articolo c’erano molte imprecisioni, così come spiegammo noi. Ma la miglior risposta che posso darle è che non si può fare quel che facciamo con persone infelici, che trascorrono la giornata a guardare l’orologio. Ci vuole creatività, devi svegliarti sotto la doccia pensando ai tuoi clienti. Devi avere persone coinvolte, che trovino un senso in quel che fanno. Una cosa giusta quell’articolo la diceva, che lavoriamo duro. Ma non penso che siamo i soli. Ci vogliono persone cui piaccia il cambiamento. Altri preferiscono la stabilità. Ma internet non è il posto giusto per loro».
Una volta, in un discorso all’università, lei ha affermato: “A ottant’anni, vi guarderete indietro e la cosa più importante saranno le scelte che avrete fatto”. Qual è stata la sua miglior scelta finora?
«L’ottanta per cento della tua felicità dipende da chi scegli come compagna o compagno. Sono stato fortunato. Sono sposato da ventitré anni con Mackenzie. È stata la mia miglior scelta… finora. Non ho rimpianti. Di solito si rimpiange quel che non hai fatto, per esempio un amore non dichiarato. Se segui le tue passioni non avrai rimpianti. Scegli con chi vuoi passare il tuo tempo, individua le tue battaglie: voglio combattere da questa parte o inventare dall’altra? La mia è inventare. Ma sono scelte personali. Ognuno deve trovare la propria».
Questa settimana lei è diventato il terzo uomo più ricco del mondo. È noto per la morigeratezza. Che significato ha il denaro per lei?
«Sono la persona più fortunata del mondo. Sono nato in un Paese che permette di intraprendere, ho avuto modelli straordinari, una famiglia che mi ha aiutato. Le persone che ammiro di più sono quelle che crescono tra le difficoltà e nonostante tutto ce la fanno. Non è il mio caso. Ho quattro figli, la mia vita mi piace. Grazie ad Amazon ho la possibilità di lavorare nel futuro e questo per me è un sogno, mi dà un senso. Una volta provveduto alle necessità di base, al sostentamento, alla salute, credo questo sia quel che tutti cercano: l’idea che quel che fanno serva a rendere il mondo un posto migliore».
Torniamo al presente. C’è un rapporto difficile tra molte aziende americane di tecnologia e l’Europa: dalla privacy alla questione delle tasse.
«Le domande semplici alla fine, eh? Ci sono diversi dossier che riguardano le aziende di tecnologia e l’Europa. Prendiamo il tema della privacy dei cittadini rispetto alla sicurezza nazionale. È una faccenda per la quale ancora non abbiamo una soluzione. Quanto alle questioni regolatorie, voglio dire una cosa: la prima cautela che dovrebbero utilizzare i legislatori è la prudenza. Bisogna essere cauti per non danneggiare l’innovazione. Certo le norme servono, ma bisogna ragionare bene su quale sia il modo migliore di applicarle».
Perché investite qui in Italia?
«Ci piace il vostro mercato, e ai consumatori italiani piacciono i nostri servizi. Siamo arrivati solo nel 2010, ma sta andando bene. In Italia abbiamo investito cinquecento milioni di euro».
Diego Piacentini, uno dei suoi top manager, a breve diventerà consulente del governo per l’innovazione.
«Diego è un collega e un amico, siete fortunati. Lo conosco da vent’anni e mi ha sempre detto che un giorno sarebbe tornato per sdebitarsi con il suo Paese».
Una volta terminato il mandato Piacentini tornerà in Amazon?
«Gli ho detto che può tornare quando vuole, magari anche domani. No, (ride), domani meglio di no. So che tiene molto a questo suo nuovo impegno, è una sua passione».
Lei ha incontrato il presidente del Consiglio Matteo Renzi. Un consiglio per lui?
«Il vostro premier è molto interessato al modo in cui la tecnologia può migliorare la società, dalla digitalizzazione del Paese a come si può aumentare la produttività, innovare nella pubblica amministrazione ».
Pensa che Donald Trump sia adatto a fare il presidente degli Stati Uniti?
«Un candidato alla presidenza dovrebbe essere felice di essere messo sotto esame, in discussione. Abbiamo un pezzo di carta negli Stati Uniti, dice che esiste libertà di parola. Si chiama Costituzione. Ma se nessuno la rispettasse, non avrebbe alcun rilievo. La ragione fondante delle leggi è che i cittadini credano in esse. Altrimenti non avrebbero senso. Se credi nella libertà di parola, specie come candidato, hai il dovere di rispettarla e dire: “Venite qui, sono a vostra disposizione, esaminatemi”».