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 2016  luglio 24 Domenica calendario

Camalli, la fine di un’epoca. A Genova chiude la centrale a carbone del porto

Le operazioni si concluderanno domani, quando la stiva della “Interlink Veracity” sarà completamente svuotata dal suo carico. Poi il porto di Genova potrà dire addio al carbone e, in questo modo, chiudere una storia vecchia di duecento anni. Una storia sofferta, che parla di un traffico che quasi nessuno ama più, perché il carbone alza polveri e inquina, soprattutto quando brucia. Così, dopo più di un secolo di vita, la centrale Enel del porto si fermerà definitivamente a Ferragosto e quindi non sarà più necessario alimentarla. Forse diventerà un museo, visto che il palazzo, ardita costruzione di architettura Belle Epoque, è vincolato dalle Belle Arti. Di certo non brucerà più carbone per generare energia. Una pagina che si chiude? Più che una pagina, un libro. Perché il carbone non è semplicemente “una” merce, ma “la” merce, addirittura la metafora di un mestiere, quello del camallo, che affonda le sue radici nel Medioevo. Tutto, per secoli, si è caricato sulle spalle di uomini scelti per la loro forza fisica e apprezzati per la loro arguzia, appunto i camalli. Quelli delle merci varie, oggi in gran parte “cannibalizzate” dai container, affidate alla Compagnia Unica, e quelli del carbone, riservati alla “Pietro Chiesa”.
Non è un caso che lo scrittore Maurizio Maggiani, quando decise di celebrare sua maestà la merce (“La regina disadorna”) scelse come nomi dei due protagonisti Paride e Tirreno, nomi belli e antichi, ma totalmente reali, presi a prestito proprio dai due consoli (altro straordinario esempio di nome che attraversa la storia e arriva ai giorni nostri per indicare i capi) della Compagnia Unica e della “Pietro Chiesa”.
Il primo, Paride Batini, se n’è andato già da qualche anno, portato via dalla malattia. Il secondo è sempre al suo posto, appena riconfermato per l’ottava volta alla guida dei “carbunin”, pronto a dare battaglia anche ora che il carbone nel porto non arriverà più. Certo, ci sono altre “merci alla rinfusa” da lavorare nel Terminal del porto di Genova, rinfuse nere come il petrolcoke, o bianche come il cemento e il sale. Ma nulla sarà più come prima, perché è stato proprio il carbone a segnare lo sviluppo del porto di Genova, dalla prima rivoluzione industriale, quella che faceva leva su questa merce per alimentare navi e locomotori e produrre energia per le fabbriche, alla seconda, quella del petrolio, che pure continuava a servirsi del carbone per alimentare le centrali. La “Pietro Chiesa” era nata alla fine dell’Ottocento (atto notarile 1890) proprio per regolamentare il lavoro di carico e scarico del carbone, cercando così di porre fine allo strapotere dei “confidenti”, caporali che dentro al porto decidevano chi e come avrebbe dovuto lavorare quel giorno, per una manciata di lire che poi regolarmente veniva strappata ai lavoratori, visto che gli stessi “confidenti” erano i proprietari delle osterie e delle locande dell’angiporto. Fu proprio l’azione di quei camalli a porre un freno alla deregolamentazione del lavoro e a incidere nel profondo nelle battaglie dei lavoratori che chiedevano più sicurezza, tutela della salute, paghe più adeguate. Ma battersi per tutto questo, che era sacrosanto, ai camalli della “Pietro Chiesa” non bastava.
Loro chiedevano anche un’informazione che potesse tenere conto delle istanze dei lavoratori. E nel 1903 finanziarono e divennero i primi azionisti del quotidiano “Il Lavoro” (oggi edizione ligure di Repubblica). In quegli anni i soci erano poco meno di cinquemila, impegnati senza sosta nello scarico dalle navi di carbon fossile, antracite, mattonelle di carbone. Oggi sono 33, confinati in un terminal, appunto il “Terminal Rinfuse”, da cui chiedono di uscire per potersi dedicare ad altre merci e continuare a battersi per il loro lavoro.