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 2016  luglio 24 Domenica calendario

«Un giorno ve la farò pagare, farò una strage!». Ultime sul killer diciottenne di Monaco

«Lo aveva annunciato», dice sottovoce. «Dopo l’ennesimo litigio con i compagni di scuola, Ali aveva gridato “vedrete, vedrete, un giorno ve la farò pagare, farò una strage!”». Safete D. non riesce a capacitarsi. Quel ragazzo «strano» che abitava al piano di sotto, che andava alla sua stessa scuola, l’ha fatto davvero. Venerdì sera David Ali Sonboly è andato nel più grande centro commerciale di Monaco e ha crivellato di colpi decine di persone, ammazzandone nove. Ora il risveglio di chi lo incrociava tutti i giorni, di chi magari lo scansava o, peggio, lo bullizzava, è doloroso. «In effetti, era sempre molto solo», racconta Safete, «non aveva amici». La quindicenne macedone scuote la testa. Lo aveva anche incontrato nel giorno della sparatoria. Distribuiva i giornali, come faceva sempre nel tempo libero. Le era sembrato «ancora più strano del solito, neanche mi aveva salutata». Safete ricorda anche un altro dettaglio importante del suo vicino di casa. «Non era la prima volta che aveva problemi con i compagni. Aveva già cambiato scuola. Insomma, era venuto alla Alfons Mittelschule perché non era tanto popolare neanche prima». Un eufemismo.
Anche dalle testimonianze che sono spuntate ieri, è chiaro che Ali era letteralmente perseguitato dai suoi compagni. E che meditava da molto tempo, secondo gli inquirenti, il gesto di venerdì. Negli anni era stato attenzionato dalla polizia, ma sempre come vittima. Nel 2010, ad esempio, proprio per aggressioni subite da parte di alcuni coetanei. I sintomi del suo disagio erano palesi. La sua famiglia gli pagava le cure psichiatriche per «una forma di depressione», ha confermato Thomas Steinkraus-Koch, il magistrato che indaga sulla strage. E dopo i ritrovamenti fatti a Dachauerstrasse, nell’appartamento vicino al centro di Monaco dove Ali abitava con i suoi genitori e un fratello minore, Daniel, non c’è dubbio che una matrice islamica debba essere del tutto esclusa, hanno sottolineato gli inquirenti. Gli indizi sul movente sono comunque spaventosi.
La famiglia è ancora troppo distrutta per sottoporsi all’interrogatorio. «Anche loro hanno perso un figlio, dopotutto», ha detto il capo della polizia, Hubertus Andrae. Gli agenti sono andati a prendere Massoud Sonboly, il padre di Ali, venerdì sera, poco dopo la sparatoria, appena identificato l’autore. Massoud ha una piccola cooperativa di taxi, fa una vita «molto tranquilla» con sua moglie, che lavora in un supermercato Karstadt. C’è anche il figlio minore Daniel, «che era molto più loquace e vivace del fratello», racconta Stephan Baumann, il proprietario di un negozio bio proprio accanto al portone d’ingresso. I due figli, Ali e Daniel, sono nati in Germania, hanno il doppio passaporto, persiano e tedesco.
I Sonboly abitano in un edificio bianco con un silenzioso cortile interno molto curato che ospita un miscuglio di famiglie sussidiate e benestanti – una strategia mirata, da parte del Comune – in un quartiere “bene” come Maxvorstadt. Ma la famiglia così unita non è riuscita a curare Ali dal bullismo. Il contenuto delle scatole che le forze speciali dell’antiterrorismo hanno requisito ieri all’alba, durante un secondo blitz nell’appartamento, è molto chiaro.
Ali sembrava rimuginare da tempo su una strage da “lupo solitario” contro i suoi coetanei. Di imitare i suoi grandi idoli. Collezionava articoli di giornale sulle sparatorie più famose, aveva un libro dedicato all’unico, terribile episodio di questo tipo accaduto in Germania, la strage di Winnen- den del 2009, quando un diciassettenne aprì il fuoco nella sua vecchia scuola e ammazzò 15 persone. E aveva un vero e proprio culto per Anders Breivik, il neonazista norvegese della strage di Utoja, di cui ricorreva il quinto anniversario proprio venerdì. Secondo il capo della polizia, un nesso tra Breivik e l’attacco di Ali «è logico».
Tuttavia, quando il diciottenne matura l’intenzione di vendicarsi dei suoi coetanei, vuol essere certo di colpirne il più possibile. Soprattutto turchi, perché sono loro a torturarlo a scuola. Quei turchi che Ali dice anche di odiare nel famoso video della sera della sparatoria, quando battibecca con un uomo. Dunque, apre un profilo finto su Facebook, spacciandosi per un’adolescente, Selina Akim. Un’esca che «serve ad attirare anzitutto giovani», conferma la polizia. Venerdì mattina, il post fatale: «Venite oggi alle 16 al Meggi (McDonald’s,
ndr) all’Oez. Offro io, se non è troppo caro». Poco prima del massacro, un ragazzino riesce però a risalire all’identità vera del profilo, scrive un commento per smascherarlo: «L’account è a 100% finto, sto tipo è malato», scrive.
Ma Ali non annulla il suo piano. Poco prima delle sei, secondo una testimone che si trova nel McDonald’s, entra nel fast food e si siede accanto a una ragazzina di 13 anni che sta addentando un hamburger. Il ragazzo non mangia nulla. Sparisce in bagno, poi, esce dal McDonald’s insieme alla bambina. Quando comincia a sparare, lei sfugge miracolosamente alla mattanza. Altri nove no, restano a terra tra il marciapiede del fast food e il centro commerciale Oez, dove Ali allunga la sua scia di sangue.
Quando si rifugia sul tetto del parcheggio e litiga con il tedesco che gli dà del “terrone” da un balcone, offre l’indizio decisivo agli inquirenti: «Sono tedesco, ma per colpa vostra sono stato mobbizzato per sette anni e ora mi sono dovuto comprare una pistola per farvi crepare tutti».
La Glock calibro 9 con la matrice abrasata, finita in mano a un diciottenne come Ali, resta uno dei misteri della vicenda. In ogni caso, quando viene intercettato dalla polizia, il ragazzo decide di non farsi catturare – pare che gli agenti gli abbiano anche sparato, mancandolo – e si suicida, a un chilometro circa dal luogo della sparatoria. Quando recupera il cadavere di Ali, la polizia si avvicina con cautela al suo zaino, temendo nasconda una bomba. Contiene invece trecento pallottole. Un carico d’odio altrettanto esplosivo. La mattanza, nelle intenzioni di Ali, era appena cominciata.