La Stampa, 25 luglio 2016
Contro l’anno sabbatico
È arrivata in Italia la mania del gap year, un anno sabbatico tra la maturità e l’università oppure tra la triennale e la specialistica. Un anno per vivere delle esperienze, per non tornare subito ai sacri riti della scuola o dell’università, un anno da vivere intensamente. La mania viene da lontano, dal Regno Unito, che da sempre ha realizzato la Brexit dei giovani all’incontrario: uscire dalla patria per curiosare in Europa e nel mondo. È un anno vissuto svagatamente, che non risponde spesso ad alcun progetto. Il gap year infatti può anche essere utile, ma non può essere un anno perso e in cui ci si perde. Gli inglesi lo fanno anche perché le loro superiori sono più corte di un anno, ma noi no. Costruire il progetto significa imparare una lingua nuova, avere un’esperienza di lavoro, fare volontariato, stringere relazioni personali, trasgredire il tran tran di un anno vissuto scolasticamente. I ragazzi italiani sono famosi per uscire dai diversi ordinamenti in ritardo, anche dalle superiori, ma soprattutto dalle università: pur avendo istituito le triennali, la media dell’età di laurea è di 25 anni, mentre per la specialistica si scivola verso i 27.
E vogliamo perdere un altro anno? Non è un nostalgico rimpianto sul tempo che passa, ma un richiamo a vivere pienamente. C’è già l’impatto con il lavoro a creare gap year, anni vuoti di lavoro e pieni di ricerca di occupazione. Non aggiungiamone altri, senza avere la certezza di un proficuo ritorno.