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 2016  luglio 22 Venerdì calendario

La libertà a colpi di terrore, il paradosso di Robespierre

Nessun altro protagonista della Rivoluzione francese ha suscitato tante e opposte passioni come Maximilien Robespierre (1758-1794). Nessun altro ha sollecitato giudizi altrettanto divaricati: difensore intransigente e a ogni costo dei principi rivoluzionari, secondo alcuni; responsabile, secondo altri, di aver condotto la Rivoluzione a sacrificare la libertà individuale che pure aveva proclamato, e di avere inaugurato così la prima delle moderne dittature democratiche. Oggi, esauritasi da tempo quella corrente storiografica «giacobino-comunista» che celebrava Robespierre come una specie di anticipatore di Lenin, sono i giudizi del secondo tipo, quelli decisamente critici, a prevalere. Senza tuttavia che attorno alla figura dell’Incorruttibile – come presto Robespierre venne appellato – cessi di aleggiare un ambiguo fascino.
È un fascino che si mescola al disagio quello che sente di provare anche Cesare Vetter nella presentazione del Dictionnaire Robespierre, di cui è autore insieme a Marco Marin ed Elisabetta Gon (Edizioni Università di Trieste): un’opera imponente e ambiziosa, quale di rado il mondo universitario italiano, cronicamente privo di fondi, riesce a produrre, almeno nel campo delle discipline storico-politiche. Si tratta di un lavoro che cerca di oggettivizzare, per dir così, lo studio della figura di Robespierre attraverso gli strumenti della lessicometria, cioè dell’analisi quantitativa delle parole – singole o aggruppate – che vengono più di frequente utilizzate.
Il dizionario presenta, da questo punto di vista, conferme e sorprese. Tra le prime la presenza strabordante del riferimento robespierriano alla «virtù» come centro dell’intero progetto giacobino; tra le seconde, l’estrema prudenza con cui l’Incorruttibile utilizzava il termine «terrore».
Confesso di nutrire qualche dubbio sul fatto che possa essere la frequenza con cui vengono impiegate certe espressioni o parole chiave a farci capire fino in fondo eventi storici segnati da una fortissima dimensione ideologica, nei quali ogni parola è impastata di sentimenti e passioni, e spesso si lega a un orizzonte salvifico («Il regno dell’eguaglianza comincia», annunciava ad esempio Robespierre nel settembre 1792). Tuttavia, nel caso della Rivoluzione francese, proprio l’attenzione al lessico utilizzato si rileva particolarmente utile, poiché consente di mettere a fuoco quella che ne fu una delle caratteristiche peculiari, in particolare durante il governo del Comitato di salute pubblica: lo scontro interno al fronte stesso dei rivoluzionari, risolto con la morte di chi si trovava in minoranza.
Sappiamo ormai che questa violenta lotta intestina non può essere ricondotta all’espressione di interessi sociali differenti, come aveva creduto di fare la storiografia marxista, ma chiama invece in causa il discorso rivoluzionario in quanto tale, il suo lessico appunto. La Rivoluzione aveva segnato la comparsa di un nuovo soggetto politico, il popolo; per ciò stesso aveva anche creato una competizione continua tra chi parlava in suo nome. Prima ancora che i Danton, i Brissot, i Robespierre, protagonista vero della Rivoluzione era – come osservò lo storico François Furet – il circuito semiotico: lo scontro politico diventava una lotta per stabilire chi rappresentasse davvero la volontà popolare. «Da sé il popolo vuole sempre il bene, ma da sé non sempre lo vede», aveva scritto Jean-Jacques Rousseau in un passo del Contratto sociale più volte citato da Robespierre (e di cui spesso percepiamo un’eco anche nelle democrazie contemporanee: si pensi a tanti commenti recenti sul voto per la Brexit). Quel passo poteva essere letto come una giustificazione della maggiore capacità dell’élite rivoluzionaria, rispetto al resto della popolazione, di individuare ciò che è bene per il popolo; apriva così la strada a una lotta, entro il fronte rivoluzionario stesso, tra posizioni diverse, ciascuna delle quali proclamava di riflettere – essa e soltanto essa – il vero interesse e la vera volontà del popolo.
Incapaci di riconoscere la legittimità di interpretazioni differenti della volontà popolare, concepita una e indivisibile come la sovranità della Repubblica, i giacobini finivano necessariamente per considerare il dissenso politico alla stregua di una patologia. Così, per spiegarlo, non sapevano far altro che ricondurlo a motivazioni inconfessabili, in primis al tradimento, che per Robespierre diventò presto un’autentica ossessione. Sempre più iniziò a vedere ovunque cospirazioni, a leggere la realtà dal punto di vista di un manicheismo paranoico che divideva il mondo in virtuosi e corrotti.
Fu all’interno di questo universo mentale popolato di complotti che poté prendere corpo la legge del 22 pratile (10 giugno) 1794, che riformava la procedura del Tribunale rivoluzionario sopprimendo le prove e la difesa, facendo subire così un’impennata al numero delle esecuzioni capitali. Proprio il complotto «percepito», scrive Vetter nell’introduzione al Dictionnaire, può aiutare a spiegare l’evoluzione dell’atteggiamento di Robespierre, che nel 1791 si era dichiarato contro la pena di morte, nei confronti della violenza e dell’impiego massiccio della ghigliottina.
L’analisi del lessico di Robespierre permette appunto di cogliere anche il differente significato che certe parole o espressioni vengono ad assumere nel giro di pochi anni. Inizialmente con «libertà pubblica» il leader giacobino intende riferirsi all’insieme delle libertà politiche e civili che possono essere minacciate dal potere. Con un’accezione dunque a cui non sono estranee implicazioni, in senso lato, liberali. Durante il Terrore «libertà pubblica» diventa invece sinonimo di difesa della Rivoluzione contro i nemici interni ed esterni in combutta tra loro (di nuovo l’ossessione del complotto).
Giustamente Vetter osserva che Robespierre, come tutto il giacobinismo, non vorrebbe annullare l’individuo nella società. Ma è la dinamica stessa della Rivoluzione, una dinamica incontrollata e incontrollabile per chi non riconosce alcuna legittimità alla differenza di opinioni e dunque al dissenso politico, che spinge inesorabilmente a schiacciare la libertà individuale.