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 2016  luglio 01 Venerdì calendario

«Se i tedeschi fanno i tedeschi vinciamo noi». Quattro Chiacchiere con Dino Zoff

Lo guardi leggero nei movimenti, in perfetta forma, e pensi che ancora potrebbe rimettere i guanti e andare fra i pali. Ma lui Dino Zoff da quando smise – a 41 anni compiuti, il 29 maggio 1983, giocando a Göteborg e chiudendo proprio in Nazionale –, in porta non ci è più tornato: nemmeno per una partitella fra amici. I miti sono così. Ora con un duro lavoro di preparazione in palestra, testimoniato dagli scatti fotografici esclusivi che pubblichiamo a lato, ha superato brillantemente un brutto periodo per la salute, e si gode la popolarità che il tempo non ha minimamente intaccato. Anzi, proprio quando si è saputo del suo lungo ricovero, prima di Natale, l’affetto della gente si è moltiplicato nei suoi confronti. La sorpresa ha presto lasciato il posto al senso di conforto di un uomo di valore e di valori. Non ce ne voglia Gigi Buffon, ma se ragioni sull’azzurro e un portiere il primo pensiero di tante generazioni di sportivi va proprio a SuperDino. Lui, quando ha battuto i tedeschi, ha alzato la Coppa del mondo e le sue braccia con quel trofeo sono diventate opera d’arte di Renato Guttuso, indelebile nel tempo. «Quello fu un successo merito quasi esclusivo di un uomo: Enzo Bearzot – ricorda con eterna gratitudine, Zoff –. Coerente come pochi, esempio di vita oltre che di sport per noi giocatori. Per questo nel giorno di quella finale del 1982 ci fu poco da parlare, ognuno di noi sapeva come comportarsi, cosa fare. La Germania era forte, ma la vittoria fu una conseguenza di tutto il lavoro fatto per anni e spesso poco apprezzato all’esterno».
Conte può somigliare, almeno nel modo di gestire, a quel Bearzot?
«Lasciamo perdere i paragoni. Per me di uomini come Bearzot non ne esistono. Questo non significa che non stimi Antonio. Già da giocatore era uno dei miei azzurri che sfiorarono l’Europeo, perso nel 2000 a una manciata di secondi dalla fine. Quella rimane la mia più grande delusione da allenatore: avevamo giocato molto bene quel torneo – a parte con l’Olanda, quando eravamo stati fortunati e ci aveva salvato un grande Toldo –, ma i francesi riuscirono a segnare proprio allo scadere, vincendo poi col golden gol. Comunque Antonio è bravo, fra noi è rimasto un bel rapporto: con Lele Oriali è venuto a farmi visita anche in clinica». Di più non dice, Dino, perché quel periodo buio di salute è ormai alle spalle – grazie anche a un grande lavoro atletico di recupero che lo ha rimesso in forma – e da sportivo vero ha vinto quella partita e vuole guardare solo avanti. Ma se Conte è entrato nella stanza di quella clinica, è solo perché con Zoff ha un rapporto umano particolare.
Cosa l’ha sorpresa dell’Italia?
«Niente. Me l’aspettavo così, proprio perché ho seguito Conte nel suo lavoro in questi anni. Cominciando dalla Juventus, dove ha avviato un ciclo vincente eccezionale. Sta usando il meglio della nostra scuola italiana, della quale dovremmo essere più orgogliosi. Per questo dico che con la Spagna mi attendevo quella prestazione e la vittoria. Ora l’impresa da compiere è domani. Ma se i tedeschi giocano da tedeschi…».
Che succede? Spieghi più dettagliatamente.
«Nel senso che la Germania ha quel pizzico di presunzione, che finisce per esaltare le nostre qualità calcistiche. E non è solo un discorso di precedenti. Mi auguro che la partita, psicologicamente e tatticamente, vada su questi binari. E allora diventerà molto interessante per noi».
In campo due grandi portieri, Buffon e Neuer, ancora imbattuti: sono i migliori? Potranno fare la differenza ai rigori?
«Non credo si arriverà ai rigori, la gara si deciderà prima. Loro sono certamente i migliori. In questo torneo e non solo, ma niente giudizi e confronti. Sono due campioni: ognuno col proprio stile».
Quello di Zoff era essenziale. La parata decisiva su Oscar, contro il Brasile nel 1982, resta fra le più belle di sempre. Paragonabile, almeno per importanza, con quella di Buffon su Piqué con la Spagna?
«Lasciamo perdere i paragoni».
È inevitabile però il raffronto fra i due migliori portieri azzurri di sempre: lei una volta disse «dipende da come invecchierà Buffon».
«In effetti Gigi sta invecchiando molto bene. Ha superato i problemi fisici che gli avevano in pratica fatto saltare il Mondiale del 2010. Ma ancora ne deve fare di strada per raggiungermi. Gli auguro di riuscirci vincendo questo Europeo. Resto ancora l’unico italiano ad aver realizzato la doppietta col Mondiale 1982, dopo aver vinto a Roma nel 1968 il torneo continentale».
Certo, il tabellone non ci aiuta: prima i campioni d’Europa, ora quelli del mondo.
«Ma se vuoi arrivare in fondo e vincere, comunque li devi affrontare e battere prima o dopo. E noi con la nostra scuola siamo sempre competitivi. Bisogna crederci».
Le sorprese di questo torneo?
«Mi piace il Galles. La Croazia ha sprecato perché ho l’impressione che i giocatori pensassero già ad altro più che a battere il Portogallo. Ma la vera impresa è quella dell’Islanda. Loro sono i veri eroi: hanno scritto contro l’Inghilterra una pagina di storia del calcio, dimostrando una buona organizzazione e grande fair play. Complimenti a loro».
Perché ancora oggi il gioco italiano viene assimilato al catenaccio?
«Sono balle. La nostra scuola è un misto di fantasia, organizzazione, equilibrio fra i reparti. Lo ha confermato il lavoro di Lippi nel 2006, dopo il nostro successo del 1982. Certo il calcio cambia, ma i concetti base restano. E poi andate a guardare le statistiche anche di questo Europeo. Si segna su calci da fermo o con ripartenze. E allora quando prendi palla è bene cercare subito la profondità per sfruttare gli spazi e anticipare il piazzamento della difesa avversaria. Se vogliono chiamarlo catenaccio, lo facciano. Ma non è così. Avessero voglia di studiare la storia di questo sport e magari riguardare immagini del passato...».
Quali?
«Proprio Italia-Germania del 1982. Sul primo gol di Rossi il cross è di Gentile e accanto a Paolo c’è Cabrini, pronto a ribadire in rete. Cioè due terzini. Nel 2-0 è il centravanti Rossi che torna a recuperare il pallone nella propria metà campo e prima che la sfera arrivi a Tardelli si passano la palla nell’area tedesca Bergomi e Scirea. Vi sembra una squadra difensiva questa?».
Nelle sue parole c’è anche tanto orgoglio italiano.
«Certo, perché troppo spesso si parla di calcio all’olandese, piuttosto che alla brasiliana o all’inglese. Dimenticando le bontà della scuola italiana, delle nostre caratteristiche. Che non prescindono mai dalla capacità di creare gruppo e fare squadra. Un insegnamento che potrebbe servirci più in generale, come popolo. Perché quando riusciamo a stare uniti, a rispettare le regole senza furbizie, siamo capaci di ottenere risultati eccezionali. Anche se capisco che è più semplice far squadra in 23 che in 60 milioni. Però dovremmo tenerlo tutti ben presente. E crederci con orgoglio».
Ecco perché Italia-Germania è sempre qualcosa più di una partita di calcio. E se i tedeschi fanno i tedeschi...