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 2016  giugno 29 Mercoledì calendario

Storia di quell’Italia-Germania 4-3 che ci cambiò

L’arbitro peruviano Arturo Yamasaki fischiò la fine e nulla fu più come prima. Era notte fonda, in Italia, ma nessuno andò a letto. Scesero tutti in strada a far festa, chi ancora con le braghe del pigiama addosso, ognuno con una bandiera, un fazzoletto al collo e un segno, qualcosa che testimoniasse l’appartenenza: alle ore 2.30 del 17 giugno 1970 (che era già il 18 giugno), a Roma come a Torino, a Napoli come a Milano, a Trieste, a Bologna, a Firenze, a Cagliari, a Palermo e perfino lassù, in mezzo alle montagne dell’Alto Adige, tutti erano italiani. Tutti fieri e orgogliosi del tricolore, tutti innamorati pazzi di Riva e di Boninsegna, di Albertosi e, soprattutto, di Gianni Rivera, il «golden boy», il ragazzo d’oro che aveva regalato, nell’arco di un solo minuto, l’emozione più crudele e quella più dolce: prima addormentato come un bambino capriccioso sul palo a guardare il pallone che entrava in rete e Albertosi che gli lanciava un’occhiataccia di rimprovero, e poi, esattamente sessanta secondi più tardi, pronto a spiazzare Sepp Maier con il più bel tiro di piatto che la storia italica del pallone abbia mai visto.
IMMAGINI Da quel momento, da quel preciso istante, ogni cosa cambiò nella vita di ognuno di noi. Italia-Germania Ovest 4-3, allo stadio Azteca di Città del Messico, non fu soltanto la semifinale del Mondiale 1970: fu la cronaca che, nel corso di centoventi minuti guidato più dalla follia che dalla ragione, si trasformò in storia, e poi in epica. Che cosa importa se la finale contro il Brasile di Pelè, dopo quattro giorni, l’abbiamo persa? E chi si ricorda più delle contestazioni al ritorno della Nazionale all’aeroporto di Fiumicino? Ciò che resta, e resterà per sempre, sono i sette gol di Italia-Germania, Riva che abbraccia Rivera in mezzo all’area di rigore tedesca, Beckenbauer con il braccio legato al collo e quell’incedere imperiale che incuteva paura e rispetto. Il resto, cioè il fatto che i brasileiros ci presero a pallonate, è un dettaglio, una nuvola passeggera che attraversa il cielo e se ne va, lasciando intatta in chi l’ha ammirata da adulto o da bambino, o in chi se l’è sentita raccontare, l’immagine di quella Nazionale che, stremata e con la lingua di fuori, esulta per un’impresa che, allora, aveva del miracoloso.
DIFESA DI FERRO L’Italia di Ferruccio Valcareggi, prima di quella sfida, più che una squadra di calcio era un gruppo di giocatori in perenne agitazione sindacale. Polemiche a non finire, gli interisti contro i milanisti, Rivera (cioè il migliore degli azzurri) boicottato dalla maggioranza, criticato da gran parte della stampa e non sostenuto (anzi: osteggiato) pure dai vertici della Federazione. Insomma, il caos al potere. D’altronde, era il 1970 e il clima mondiale, tra crisi economiche e contestazioni giovanili, favoriva quelle risse da spogliatoio. Fatto sta che gli azzurri riuscirono a superare il girone eliminatorio senza incantare e, nel quarto di finale, improvvisamente si sbloccarono e rifilarono quattro pappine ai padroni di casa del Messico. La forza, come sempre per gli italiani, stava nella difesa: soltanto due gol subiti in quattro gare. E con questa certezza Valcareggi si presentò all’appuntamento con i tedeschi. Boninsegna segnò il golletto in avvio di partita e poi tutti dietro, in trincea, a respingere il nemico. Pareva ormai fatta quando Karl Heinz Schnellinger, che giocava nel Milan, indossò i panni del traditore: segnò la rete del pareggio ben oltre il novantesimo, e fu una beffa. Ci rimase malissimo persino quel gentiluomo di Nando Martellini che si lasciò scappare, lui sempre così misurato, una critica all’arbitro: «Questo Yamasaki! – disse con voce rotta dalla delusione – Due minuti e mezzo dopo la fine del tempo regolamentare...». All’epoca non c’era il quarto uomo che mostrava la lavagna luminosa indicando il recupero. Anzi: non c’era proprio il recupero. Pazienza, supplementari.
MONTAGNE RUSSE La Germania era favorita: aveva vinto in scioltezza il girone, aveva battuto nei quarti (e in rimonta) i campioni del mondo dell’Inghilterra. Chi poteva fermarli, questi tedeschi? La follia, soltanto la follia. Che, puntualmente, andò in scena davanti ai centomila spettatori dell’Azteca di Città del Messico. Assistere ai tempi supplementari fu come salire sulle montagne russe: gol di Muller, pareggio di Burgnich, gol di Riva, pareggio di Muller e, infine, il colpo di fioretto di Rivera. 4-3! Una partita da togliere il fiato, «el partido del siglo», la partita del secolo come scrissero i tifosi messicani su una targa che ancora oggi campeggia all’entrata dello stadio. L’Italia si scoprì una nazione di santi, poeti, navigatori e... calciatori. E, come d’incanto, i maestri elementari, entrati in sciopero qualche giorno prima, revocarono la protesta e si misero a fare il loro dovere.