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 2016  giugno 30 Giovedì calendario

La Gran Bretagna punta al modello Norvegia: non fare parte politicamente dell’Europa, ma averne i benefici economici e commerciali

«Norway plus», qualcosa in più di quel che ha la Norvegia, ha chiesto ieri per Londra il ministro britannico della Sanità Jeremy Hunt, candidato alla guida del suo partito conservatore e anche del futuro governo post-Cameron.
Traduzione in soldoni, almeno secondo la visione inglese: stare alla finestra dell’Europa senza farne politicamente parte, partecipare a molti benefici economici e commerciali del mercato unico quasi come la Francia o la Germania ma senza rischiare il salto nel recinto della moneta unica, l’euro; accettare senza tante storie regole e direttive europee senza però mollare alcune delle competenze nazionali più importanti, per esempio le norme sulla pesca che insieme con il petrolio è il vero tesoro norvegese.
Tutto questo e molto altro si riassume nella sigla «See», cioè nello «Spazio economico europeo» che oggi lega Bruxelles a tre Paesi già membri dell’Efta, l’Associazione europea del libero scambio: la Norvegia, l’Islanda e il Liechtenstein.
I punti cardinali dell’accordo di collaborazione Oslo-Bruxelles sono quattro. Primo, tutte le norme più importanti del mercato unico europeo si applicano alla Norvegia, fatta eccezione per quelle sull’agricoltura, la pesca, le politiche sociali, la giustizia, le tasse, e qualche altro settore; la collaborazione è particolarmente stretta nei campi dell’ambiente, della cultura, della ricerca.
Secondo punto, la Norvegia come gli altri Paesi Efta accetta le quattro libertà fondamentali Ue: libera circolazione delle persone, dei beni, dei servizi, dei capitali.
Terzo, è membro associato dell’accordo di Schengen: in teoria, frontiere aperte agli altri cittadini dell’area, ma da marzo – proprio come Francia, Belgio, o Danimarca – Oslo ha ripristinato diversi controlli ai confini, premunendosi per esempio contro le grandi ondate di migranti siriani in arrivo dalla Germania.
Il quarto punto centrale degli accordi prevede che la Norvegia contribuisca ai fondi di coesione economica e sociale della Ue, e infatti lo fa (ma sempre meno di altri Paesi, pensano gli entusiasti come Jeremy Hunt).
Londra, appunto, vorrebbe qualcosa di più. E però cronaca e storia non le danno molte ragioni o speranze, sono troppe le differenze fra la Norvegia di ieri e di oggi, e la Gran Bretagna di un ipotetico domani.
La storia, intanto: la Norvegia, ben prima di ogni Brexit inglese, ha detto no alla Ue già da quasi mezzo secolo, con due referendum popolari, nel 1972 e poi nel 1994. Poi, ha negoziato con calma le sue scelte: gli attuali accordi di collaborazione sono stati preceduti da molti anni di trattative, non da uno scrollone improvviso come appunto il referendum britannico.
Ancora oggi, vi sono qualcosa come 500 comitati di esperti impegnati solo a vagliare – e di solito accettare – ogni nuova normativa Ue. E poi, la realtà politica: per partecipare ai benefici del mercato unico, Oslo ha dovuto sempre cedere una parte della propria sovranità, cosa che Londra ha appena rifiutato di fare con il voto della Brexit.
In fondo, al sogno chiamato «Norway plus», ha già risposto anticipatamente non Bruxelles ma la premier norvegese Erna Solberg, conservatrice, parlando poco tempo fa con il suo collega (di allora) David Cameron: «Gli accordi che abbiamo noi con la Ue non funzionerebbero con la Gran Bretagna».