Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  giugno 28 Martedì calendario

I criminali cadono ma non Matteo Messina Denaro. Francesco La Licata ci spiega perché l’ultimo dei corleonesi è ancora un uccel di bosco

I criminali latitanti cadono, come pere mature dall’albero. Ma non lui. Non Matteo Messina Denaro, l’ultimo dei corleonesi rimasto uccel di bosco dopo la cattura dei grandi capi, Totò Riina e Bernardo Provenzano. Non solo don Matteo rimane libero come l’aria, ma – dalle poche notizie che girano – sembra diventato proprio un fantasma che incombe anche se nessuno lo vede. Proprio così, perché il boss della mafia del Trapanese (quattro mandamenti per 17 famiglie) sembra aver adottato l’unica vera precauzione utile: ridurre al nulla i contatti diretti coi suoi uomini. Si dice addirittura che abbia abbandonato il territorio (fatto abbastanza insolito per un capomafia di antica tradizione) e che si faccia vivo di tanto in tanto per distribuire ordini col collaudato sistema dei «pizzini».
Per questo motivo sembrano cadere nel vuoto tutti i tentativi di «agganciare» un’esca che possa portare gli investigatori al nascondiglio del boss. Se a tutto ciò si aggiunge la rete di protezione, una corazza quasi «naturale», che avvolge la sua persona, si capisce di più. Matteo Messina Denaro non è solo un capo, è un capo amato dai suoi «sudditi», un popolo fatto non solo di «gentuzza» bisognosa della generosità del boss, ma anche di professionisti, imprenditori e politici. Illuminante è stato l’atto d’amore per Matteo dichiarato dal consigliere comunale Calogero Giambalvo (arrestato e assolto), gratificato dall’essere riuscito persino ad incontrare il suo idolo. Peccato che tanta affettuosità sia stata intercettata dalle microspie degli investigatori.
Una vera e propria rete protettiva, dunque, che resiste malgrado i reiterati attacchi della macchina repressiva statale. In più tornate polizia, carabinieri e magistratura hanno fatto terra bruciata attorno al potere del boss, ma mai si è riusciti a dare il colpo mortale. I beni sequestrati ad amici, parenti e prestanome raggiungono cifre ragguardevoli (in termini di miliardi di euro), ma il potere di Matteo non sembra uscirne scalfito. Neppure dalle «perdite affettive» come gli arresti della sorella Patrizia, del cognato Vincenzo Panicola, di un altro cognato- Gaspare Como – e il coinvolgimento, nei sequestri e confische, delle ricchezze dei potenti Guttadauro di Palermo, legati da vincoli matrimoniali con le donne della famiglia Messina Denaro. Dal 2013 ad oggi si sono ripetute le operazioni «terra bruciata»: prima l’operazione Eden che ha portato all’arresto di Lorenzo Cimarosa, imparentato con Matteo, giovane «ribelle» che ha «cantato» senza, tuttavia, entrare mai in un programma di protezione. Poi la Eden 2, causa del sequestro dei beni dei Guttadauro, poi ancora la Ermes che disvelò la rete di comunicazione attraverso i «pizzini» e infine la retata che portò alla scoperta dei «grandi ammiratori» di Matteo e all’arresto di Francesco, nipote prediletto del boss.
Eppure Matteo fa la sua vita, si parla molto della sua passione per le donne e si favoleggia di un figlio maschio (finora si conosceva una figlia, oggi maggiorenne) che il boss avrebbe chiamato Francesco, in ricordo dell’adorato padre, don Ciccio, morto in latitanza. Già, la clandestinità sembra il marchio di distinzione dei Messina Denaro.