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 2016  giugno 28 Martedì calendario

Messi ha fallito e ora non vuole più giocare

Non ce la fa: ad essere altro per altri. È l’anti-Maradona. Non riesce ad uscire da se stesso. Messi è meraviglioso: quando pensa e gioca a pallone. Ma tutto deve restare lì, nella pulizia della tecnica, nel rettangolo di gioco. Non allargarsi al mondo, alla gloria spesso bastarda, alla responsabilità. «È malato di autismo calcistico», disse Romario. Lui in missione per conto di qualcosa e di qualcuno non riesce proprio ad andarci. Resta pulce, spesso parassita, non gigante. Stavolta aveva cambiato anche look: si era fatto crescere la barba. Come fanno i nostromi, i vecchi capitani temprati dalle tempeste, quando c’è da rivendicare altre maree. Ma la storia sa benissimo come smascherare gli impostori. E Messi esce non solo sconfitto, ma anche vinto nella finale di Coppa America. È stato un fantasma, ha sbagliato il suo rigore contro il Cile, è svanito. Tanto da annunciare l’addio: «Basta. La nazionale è finita per me, ci ho provato, ho combattuto ma è la quarta finale che perdo, la terza di seguito, mi fa male, volevo vincere un titolo ma è evidente che non è per me».
Il Messi-Messia a 29 anni divorzia dal suo paese. Dove non è cresciuto, dove non ha fatto la differenza, dove ha sempre patito il momento decisivo. Quando non conta essere belli, ma veri. Quando più che dèi bisogna essere braccianti che faticano per salvare il raccolto. «Mexit», titola qualcuno. Messi esce dall’Argentina, con cui non riesce a sognare. Ma solo ad illudere. Con il Barcellona ha vinto tutto: Liga, Champions, cinque Palloni d’oro. Con la nazionale ha perso tutto: vomitava in campo al Maracanà nella finale mondiale contro la Germania nel 2014, tanto stava male per lo stress. Anche se Messi non vuole essere messo in croce, riesce ogni volta a farsi crocifiggere dall’ansia. Lui chiede «solo» di giocare a pallone, senza nessun’altra implicazione o visceralità. Pretende la normalità non la straordinarietà. In questo è l’anti-Ali, che lotta per gli oppressi, l’anti- Lebron che da solo porta la sua città a vincere il titolo Nba quanto tutti dicevano che era un’impresa disperata. Faceva effetto vedere «dopo» Messi in panchina. Da solo. Nessuno che lo consolasse. Come se da sempre fosse in un mondo a parte. In un fuorigioco esistenziale che a Maradona non sarebbe mai riuscito.
Ognuno ha a che fare con un destino: Baggio resta Baggio anche senza titolo mondiale, Johan Cruyff, «il profeta del gol», anche. Nessuno discute la grandezza di Messi che diventa però molto tascabile quando si tratta di prendere o lasciare. Se al generale Peron, da morto, avevano tagliato le mani, a Messi nelle finali sembra abbiano tagliato i piedi. Certo, ognuno ha il suo carattere. Maradona alla sua età giocava ancora in Argentina. E non voleva regole. Messi, arrivato ragazzo a Barcellona, invece le cerca. L’altro era un anarchico che scombinava tutto, si prendeva il paese sulle spalle per trovargli un destino, tra Borges e Menem, Leo invece non cerca monarchie da abbattere né regni fuori del calcio. Ma è come se il pallone sentisse questa sua apatia emotiva e si vendicasse, urlandogli ogni volta: non sarò mai tuo. Maradona lo avrebbe morso e anche fregato, Messi, sconsolato, alza le mani e si dichiara prigioniero. Diego cercava confronti con le grandi personalità del mondo: Castro, il Papa, Che Guevara. Messi le evita, non vuole extra-coinvolgimenti, non è un caso che in Champions contro l’Inter di Mourinho soffrì la doppia marcatura di Cambiasso e di Zanetti, argentini come lui, «più grandi», di cui rispettava l’autorità. Best li avrebbe irrisi, Maradona ridicolizzati come fece con Shilton, Messi li ha subiti.
È il più grande, il più ricco, il più talentuoso. Ma è come se fosse il dio delle piccole grandi partite e si perdesse quando c’è da artigliare l’infinito, in maniera, anche disgraziata, pur di non lasciarlo andare dall’altra parte. La nazionale per Messi è una ferita che continua a scavare in profondità dentro di lui, è un’infelicità che lo tormenta, è una patria che non trova. Ma invece di dargli un calcio, di dribbarla, lui si lascia marcare. La vera sconfitta sportiva è questa: dargliela vinta.